28 dicembre 2014

Per la stessa ragione del viaggio...viaggiare

Sono sicuro che molti di voi diranno "finalmente!", ci ho messo quattro mesi a processare tutte le foto che ho scattato nel viaggio negli Stati Uniti, milleeduecento foto da cui ho tirato fuori anche più di cinquanta panoramiche; quattro mesi ma, alla fine, le ho finite, sono pronte, poi mi sono detto che forse mettere tante foto avrebbe fatto tanto "diapositive delle vacanze", quelle cose per cui gli amici ti tolgono l'amicizia, fingono di non conoscerti, cominciano a parlare in sanscrito ed allora ho deciso di metterne solo una, di foto ma che in realtà il viaggio lo rappresenta in pieno, totalmente. Ma prima parliamone, no? Era la fine di luglio e dopo tre voli e ventiquattro ore nel corpo ma non sull'orologio ecco Los Angeles, tappa di partenza, non vista, solo lievemente annusata. Il giorno successivo si cerca il bus che, nei sei giorni successivi ci farà attraversare l'Ovest americano, su asfalto; si trova il bus e una compagnia che si rivelerà ottima e si parte, 620 km di tappa di trasferimento, in mezzo a due deserti, fino ad arrivare in un posto chiamato Scottdale, in Arizona, dentro un caldo secco da circa 50° alle sette di sera, praticamente un phon perennemente acceso sulla faccia. Il giorno dopo è ancora roccia e cactus dalle braccia ampie fino ad arrivare al Gran Canyon, una lunga frattura scavata da acqua e vento, una rappresentazione della pazienza della natura. Mentre eravamo lì ci hanno raggiunto pioggia e vento fino a portarci, a cena, sulla Route 66, con 12 gradi. Vi tralascio le mie colazioni americane, buone per alimentare uno staterello centr'africano e continuiamo fino ad arrivare in mezzo alla magnificenza, alla vastità, alla Monument Valley; potrei dire che è solo roccia rossa e polvere ma non sarei onesto, vi mentirei, ci ho lasciato un bel po' di occhi lì e descriverlo non renderebbe che un centesimo di quello che è. Come non rende parlare di Lake Powell, luogo di villeggiatura per americani, lago creato da una diga dentro un canyon enorme, vicino al paese con il maggior numero di chiese di religioni diverse che io abbia mai visto: cercano Dio come minatori belgi e forse lo hanno sotto gli occhi e non lo sanno. Dall'immensità alla ristrettezza, siamo passati attraverso un lungo cammino sottoterra in cui il vento ha disegnato dei Mirò naturali e ne siamo usciti, immersi nel caldo. Forse ci saremo mossi in un modo particolare, in circolo o ballando; o sarà stato perché eravamo in terra indiana ma fatto sta che abbiamo chiamato la pioggia che ci ha accompagnato per un bel tratto tra le montagne, tra paesini con lo stadio del rodeo, con il canestro da basket sul garage, con le sedie a straio sul patio. Ma l'America è grande, talmente grande da riproporci un deserto, quello del Nevada e al centro di quel deserto il più grande luna park per adulti mai visto: Las Vegas, la città degli eccessi e delle luce, la città del kitch per eccellenza. Ho giocato al tavolo del blackjack, ho vinto, al tavolo del blackjack, mi sono divertito, al tavolo del blackjack e poi, il giorno dopo, siamo andati via, abbiamo preso un aereo pieno di statunitensi e siamo arrivati a San Francisco. Meriterebbe un capitolo a parte, San Francisco, e forse lo avrà, chissà; una città bellissima, metropoli che sa di esserlo ma non te lo fa pesare; sarà che mi sono sentito a casa incontrando due blogger, due amiche, Simona e Silvia, che ci hanno spiegato in due modi diversi San Francisco facendola capire molto meglio; facendola amare un po' di più, se già quello che avevamo visto non fosse bastato. Pesante è stato ripartire per tornare in Italia, dove abbiamo trovato, ad attenderci, uno sciopero. Ora, direte voi, "E la foto???", un attimo, un attimo, adesso arriva; dicevo che ho deciso di sceglierne una, una che rappresentasse il viaggio, ed ho scelto questo:
Adesso, però, andiamo a chiudere, il 2014 si sta per concludere, negli anni scorsi l'ho chiuso felice, l'ho chiuso triste, l'ho chiuso incazzato; ho augurato cose buone, cose brutte, cose pessime e cose meravigliose, parti di me lo fanno ancora adesso, augurano, stramaledico, amano e odiano ma l'anno lo voglio chiudere e basta, senza buoni o cattivi propositi, senza saluti speciali ma solo con la convinzione precisa che il tempo è tempo, magari a volte sembra, a posteriori, essere passato in un attimo ma non è così, è fatto di ogni fottuto secondo e questo sarà sempre. Chiudo il 2014 con questo post anche perché questo è il mio post numero settecento, il seicentesimo era stato un bellissimo regalo che mi hanno fatto e in cento post, incredibilmente, sono cambiate un sacco di cose e un sacco di altre, per quanto mi riguarda, sono rimaste uguali. Non lo so cosa ci sarà su questo blog nel 2015, l'ho scritto prima, niente buoni o cattivi propositi; so che sarò sempre quello che sono, nel bene e nel male, e questo è assolutamente il mio pregio migliore.
Tanti auguri a tutti, vi voglio bene (chi più chi meno ma mi permetterete classifiche personali).

19 dicembre 2014

Esercizio n. 6

Parole

Volto
sguardo sorriso
calore vampa brivido
contatto stretta abbraccio
respiro apnea buio odore mani pelle
attimo
eternità
distacco
trauma
lacrime rabbia
banchina vagone fischio finestrino
sguardo
volto
addio
no

04 dicembre 2014

Cinque anni che sto qui

Dovrei scrivere come faccio di solito ma, in realtà, la cosa più triste è che posso tranquillamente riproporre quello che ho scritto un anno fa; non è cambiato nulla, tranne che sono un anno più stanco.

26 novembre 2014

Esercizio n. 4

Un interno

La stanza è piccola, il pavimento è fatto di assi di legno consumate dall’usura e le pareti, di un celeste chiaro, ospitano diversi quadri, tra cui un paesaggio e due ritratti. Un letto singolo prende tutto lo spazio della parete alla destra della porta, è in legno, con testiera e pediera ed ha su una coperta rossa. All’angolo opposto, alla sinistra del letto, un tavolino con su un catino ed una brocca azzurra fa da toeletta, alle sue spalle, appeso accanto alla finestra, uno specchio e, sulla parete a sinistra, quasi addossato, un chiodo regge un telo per asciugarsi. Alle spalle del letto, che è quasi attaccato al muro, una stretta asse con dei chiodi fa da appendiabiti. A fare da comodino una sedia di paglia e un’altra fa da seduta, un po’ discostata dal tavolino.

Un esterno

Un bosco immerso nelle tenebre, sulla riva di un placido lago dalle acque scure; è sormontato da un cielo luminoso puntellato di candide nubi bianche creando un’innaturale frattura tra luce e buio. Giusto davanti al lago una grande casa di tre piani; un solitario lampione ne illumina il davanti ma la sua luce non va oltre il piano terra e solo due spicchi del primo piano; sembra quasi che una tettoia, giusto sopra il lampione, crei un cono di buio. A sinistra del lampione un albero che supera, in altezza, tutti gli altri del bosco; l’albero, con le sue fronde, copre tutto il secondo piano. Alle sue spalle, immerse nell’oscurità, due finestre aperte da cui proviene una debole luce lasciano intuire la presenza di un’altra ala della casa.

25 novembre 2014

Facciamo che

Facciamo che oggi non è la giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.
Facciamo che non c'è bisogno di una giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.
Facciamo che ogni giorno lavoriamo per eliminare la violenza contro le donne.
Facciamo che chiamiamo violenza non solo il picchiare ma anche l'offendere, il deridere, lo sminuire, l'umiliare, il sottomettere.
Facciamo che i violenti non li chiamiamo uomini ma merde, come vanno chiamati.
Facciamo che non giriamo la testa dall'altra parte, mai.
Facciamo che fermiamo i carnefici.
Facciamo che smettiamo di essere vittime.
Facciamo che non speriamo nei cambiamenti che non esistono.
Facciamo che quando vediamo qualcuno essere violento lo blocchiamo.
Facciamo che quando qualcuno si vanta di essere "uomo" lo facciamo sentire una nullità.
Facciamo che stiamo attenti a tutti i possibili segnali.
Facciamo che non ci stiamo zitti perché "tanto va così".
Facciamo tutte queste cose.
Facciamone anche una sola ma
FACCIAMO.

23 novembre 2014

Intermezzo


Il Talmud dice che chi uccide un uomo uccide il mondo intero; siamo noi a rendere il mondo il posto che è. Vale per tutto, vale per tutti e non serve sbattersi per l'universo tutto se poi chiniamo la testa per noi stessi.

Punto.

20 novembre 2014

Esercizio n. 3

Un pettine d’avorio

Di mio nonno ricordo la schiena, quando, seduto sulla sua sedia di paglia, al tavolo da lavoro, aggiustava tutto quello che si rompeva in casa. Si era ricavato un laboratorio nel garage e ci si rintanava lì ogni volta che poteva; mi permetteva di stare con lui a patto che non lo disturbassi ed allora mi mettevo lì, leggevo i miei fumetti e lo osservavo; non diceva una parola, concentrato nell’aggiustare quello che aveva sotto le mani; una volta gli chiesi “Nonno, tu sai aggiustare tutto?”, si fermò e si girò a guardarmi, mi disse “Non tutto si può aggiustare” e senza aggiungere altro tornò a quello che stava facendo. Non era di molte parole, il nonno, non aveva amici e non usciva mai, da quando era morta la nonna non andava nemmeno più a messa; non che prima ci andasse volentieri, diceva che, se c’era uno Dio, era in debito con lui e gli doveva delle spiegazioni; però la nonna lo costringeva e lui non sapeva dire di no alla nonna. Se non stava nel suo laboratorio si metteva a guardare fuori dalla finestra e stava fermo così per ore; mio padre diceva che il nonno non era più lo stesso da quando era tornato dalla guerra ma mi aveva proibito di fargli domande in merito. In casa non si parlava mai della guerra, solo una volta la nonna mi raccontò che il nonno, tanto tempo prima, aveva nascosto lei e mio padre in un rifugio in montagna e una notte, uscendo a cercare qualcosa da mangiare, era stato preso dai soldati e mandato in un posto brutto chiamato Buchenwald, da cui era riuscito a tornare solo dopo anni. Mio nonno, in realtà, non aveva molta voglia di parlare di qualsiasi cosa ma se gli facevo una domanda mi rispondeva sempre e non si arrabbiava mai. Una volta, mentre guardava fuori dalla finestra, gli chiesi cosa facesse e mi rispose “Aspetto”, “Cosa aspetti nonno?”, “Il passato”, e quando gli dissi che, se era passato, allora non poteva tornare, mi guardò negli occhi, mi sorrise lieve e mi disse “Un sasso lanciato in uno stagno continua a produrre onde concentriche anche quando il sasso ha ormai toccato il fondo; così sono le azioni che facciamo, producono effetti anche tanto tempo dopo che sono state compiute” e riprese a guardare fuori. Sul momento non capii molto bene quello che voleva dirmi, lo imparai, mio malgrado, tempo dopo. Un giorno eravamo in casa solo io e lui e bussarono alla porta, andai ad aprire ed una signora di mezza età chiese del nonno, si chiamava Maria e disse di essere la figlia di un suo vecchio amico. Chiamai il nonno che si avvicinò e chiese spiegazioni; la signora spiegò di essere la figlia di Arturo Bianchini, a quel nome mio nonno sembrò quasi essere colpito da uno schiaffo, sbarrò gli occhi e dovette mantenersi allo stipite della porta; al mio gesto di aiutarlo mi disse di andare in camera e fece accomodare la signora Maria in salotto. Mi nascosi in corridoio, non avevo mai visto mio nonno così ed ero preoccupato, curioso e preoccupato. Sentii Maria parlare di quel posto brutto, Buchenwald, di come, dopo anni, erano riusciti a farsi restituire alcuni oggetti che erano appartenuti al padre, tra questi anche un diario in cui si parlava anche del nonno, della loro amicizia ed allora aveva deciso di incontrarlo per dargli uno di quegli oggetti perché, pensava, era giusto lo avesse mio nonno. Appiattendomi sul pavimento guardai nella stanza e vidi Maria porgere un oggetto al nonno, era un pettine di avorio; il nonno lo prese come se fosse la cosa più fragile del mondo e ricordo che cominciò a piangere. Senza dire una parola la signora Maria si alzò ed uscì dalla stanza, mi passò davanti ma non mi vide, piangeva anche lei; la sentii chiudersi la porta d’ingresso alle spalle e mi ritrovai nel silenzio; il nonno era ancora seduto, guardava il pettine che aveva in mano e piangeva senza emettere un gemito, senza fare un sussulto, composto; volevo andare da lui ma temetti che si sarebbe arrabbiato e così, cercando di non fare rumore me ne andai nella mia stanza. Il giorno dopo mio padre lo trovò nel garage, la sedia di paglia rovesciata per terra; aveva legato una corda ad una trave del soffitto. Il passato che aspettava era arrivato.

17 novembre 2014

Esercizio n. 2

Scambio di battute

- Ciao.
= Ciao…
- Come va la vita?
= Mah, gira. A te?
- Guarda, non me ne parlare, mi consuma.
= Eh… Ma tu che cosa sei?
- Io sono una saponetta. Vita grama la mia; costretta a ripulire mani sporche delle peggior cose e, nel farlo, a consumarmi. Vita grama la mia, ad ogni paio di mani perdo un po’ di me, mi arrotondo, mi smusso, fino a diventare piatta, un fragile osso di seppia, per poi sbriciolarmi e sparire nella schiuma. Vita grama la mia. E tu, cosa sei?
= Ma vaffanculo va, io sono la carta igienica!

14 novembre 2014

Esercizio n. 1

La bottiglia

Eccoti, arrivi sempre alla stessa ora, mi afferri per il collo, quasi mi strangoli. Mi stappi strappando via il tappo senza nessuna cura e mi avvicini alle labbra, impaziente. Sento il tuo alito di sigaretta, prima di tirare un lungo sorso, di succhiarmi via un po’ di anima, in apnea. Destino crudele nascere bottiglia di whisky, mia cugina sì che è stata fortunata, lei che è una bottiglia di olio la trattano con cura.

10 novembre 2014

I blog comunitari

E che dire? Non ho molta fortuna con i blog comunitari, Senza Quarta, l'ultimo a cui avevo aderito, ha subito una specie di boicottaggio; mi sono ritrovato, insieme ad altri, di punto in bianco ad essere solo autore e non più amministratore. Ho deciso semplicemente di cancellarmi e di cancellare anche quei due o tre post che avevo scritto, peccato, perché era una idea interessante. Alla fine rimango fedele a questo mio blog e continuerò a scrivere qui.

02 novembre 2014

Momenti

Erano forse questo? Quelle dilatazioni e accelerazioni di tempo, quelle vibrazioni, quell'osmosi tra dentro e fuori, tra corpo e anima? No, non c'era, c'è e mai ci sarà nulla di trascurabile in tutto ciò.

30 ottobre 2014

A volte si fa teatro



"A volte si fa teatro" pensò Paolo una volta chiusa la telefonata, "si modula la voce per non tradire l'emozione; è un gioco di diaframma" e come se stesse esponendo la sua tesi ad un'aula universitaria, si mise la mano giusto al centro del tronco, appena sotto il petto. "Curioso come sia così vicino al cuore, il diaframma", sorrise percependo quella lieve accelerazione attraverso i polpastrelli. "A volte si fa teatro, sì, per rendere tutto meno complicato, per far durare di più la rappresentazione"; si passava il telefono tra le mani senza pensarci, non che scottasse, no, ma come fosse qualcosa di poco conosciuto, quasi fosse diventato comunicazione e non strumento. "Si recita per se stessi, soprattutto se si ha a che fare con chi ti conosce così bene da andare oltre l'attore, oltre l'interpretazione"; questo pensiero gli calmò i muscoli rimasti con quella percepibile tensione e si accorse che, meccanicamente, si apprestava ad uscire all'aria a godersi quella lieve accelerazione.

21 ottobre 2014

Thermarium

L’acqua è calda, traspira vapore, in controluce una lieve foschia bianca ammorbidisce i contorni delle cose. La vasca è quasi una piscina, si estende su tutta la superficie della grande stanza; ti liberi dell’accappatoio bianco in cui sei avvolta e hai quasi un brivido di freddo, o di pudore, ma dura giusto un istante. Metti un piede nell’acqua ed il calore si irraggia lungo la gamba, lo puoi quasi vedere risalire attraverso le vene, fino a raggiungere ogni cellula del tuo corpo; ti immergi fino al collo, ci sei solo tu e l’unico rumore è quello delle piccole cascate ai due lati della vasca che increspano lievemente la superficie. Chiudi gli occhi ed è come diventare tutt’uno con l’acqua in cui sei immersa, ti sembra di perdere anche il nome, di scioglierti. I pensieri che fino ad un momento fa pesavano sulle tue spalle si fanno liquidi, perdono consistenza e peso quasi che anche loro fossero soggetti al Principio di Archimede; alcuni cerchi di prenderli ma, come dotati di vita propria, sfuggono via nuotando, liquidi nel liquido. Il calore ti arrossa il volto come un imbarazzo improvviso, quasi che fuggendo, i pensieri, ti abbiano lasciata nuda a gli occhi di te stessa. Sorridi un po’ stupita di tale nudità dell’anima; di fronte a te una enorme vetrata, lungo tutta la parete, si affaccia sulla valle; i monti, dal verde delle conifere, sulle cime, digradano verso il rosso del fogliame d’autunno dentro un cielo di pennellate azzurro intenso. I pensieri sfuggiti ormai hanno perso anche il nome; ti immergi con la testa sotto il pelo dell’acqua prendendo un respiro profondo e lì ti chiami per nome, così, per ricordare chi sei.

16 ottobre 2014

Il saldo dei debiti



Adesso tu paghi e paghi tutto e paghi per tutti. Paghi anche quello che non sai. Piove su di te e su di me ma a te sembra diverso, anche la pioggia ti sembra un diritto. Il concetto è che non te lo aspetti perché non arrivi nemmeno a crederci che avresti pagato a me; non te lo aspetti e ti colpisco che ancora mi ridi in faccia. Ti colpisco un’altra volta che nemmeno hai smesso di ridere, non hai smesso ma sei a terra, nel fango, nemesi e contrappasso. Ti rialzi o almeno cerchi, mentre dici qualcosa di cui non mi frega un cazzo, mentre ti fermo le parole con la suola delle scarpe; il fango ti è arrivato nei capelli, il sangue negli occhi ma te l’ho detto che paghi tutto e se pensi di saltarmi addosso lo hai pensato più lentamente del calcio che ti arriva nello stomaco. Piove, su di te e su di me, piove così tanto che le pozzanghere sono laghi; piove così forte che a malapena ti vedo ma è il malapena sufficiente per colpirti le braccia mentre sei carponi. Non ti dico mica nulla, no, tanto chi sono, alla fine, non è così importante e poi con la testa nella pozzanghera non sentiresti comunque. Ti tengo la testa sotto con il piede, sbatti le mani e le gambe, cerchi di tirarti su ma non ce la fai; l’acqua fa bolle dense, poi smette. E anche tu.

13 ottobre 2014

La cifra stilistica

Mi piacciono un sacco le serie tv, si sa, soprattutto quelle gialle e credo di averne viste abbastanza da poter dire che, bravura o meno degli sceneggiatori, ci sono clichè che, spesso, si ripetono. Uno di questi è il classico ritrovamento della lettera del soggetto scomparso con il parente prossimo che dice: "No, commissario, questa lettera non può averla scritta mio marito/moglie/figlia/figlio/madre/padre/sorella/fratello...ecc ecc", con la sicurezza estrema di chi non può sbagliare, di chi è sicuro che quelle parole non siano state scritte dal parente scomparso. Ogni volta che mi capita sotto gli occhi di spettatore questo clichè mi rendo conto che è la verità, almeno per quanto mi riguarda; che a furia di leggere le cose scritte da una persona se ne metabolizza la sua cifra stilistica. Ma che cos'è la cifra stilistica? Praticamente è l'impronta digitale di come scriviamo, è fatta dalle nostre parole preferite, dal nostro personale uso della punteggiatura, dal nostro uso dei verbi, dallo scorrere fluido o meno delle frasi, è il DNA del nostro lessico. Ora, io non sarò Grissom (anche perché non sarei mai stato capace di essere entomologo, sì e no se sarei capace di essere enologo...vabbè...altra storia); non sono Grissom, dicevo, ma a furia di leggere, di leggervi, bene o male conosco le cifre stilistiche di chi leggo; sono pochi i maestri della letteratura capaci di cambiare radicalmente la propria cifra stilistica, di essere altro da sè, tolti questi rari esempi di arte, hanno ragione i parenti degli scomparsi, se non si riconosce la cifra stilistica qualcosa è successo e le possibilità non sono molte. La più probabile è che a scrivere non sia, in realtà, colui che ha firmato; poi c'è il caso in cui, sì, a scrivere sia chi firma ma che si sia (o sia stato) costretto a scrivere quella cosa, in quel modo e poi c'è anche il caso in cui non ci sia nessuna costrizione palese ma che inconsciamente ci si voglia nascondere qualcosa e ci si inventi altro da sè. Quindi, quando vedo qualcosa di scritto che si discosta dalla cifra stilistica di chi lo firma, cifra che, magari, conosco anche meglio della mia, magari il pezzo lo apprezzo pure ma comunque mi chiedo il perché di tale variazione.

Il pezzo è stato offerto dal professor Cal Lightman di Lie to me (che poi è una delle pochissime serie tv statunitensi che non ho mai visto)

09 ottobre 2014

Eunuchicità

Leggenda vuole che quando, all’età di dodici anni, il Bomma venne a sapere che in Medio Oriente gli eunuchi erano addetti al controllo delle donne negli harem decise su due piedi che quello sarebbe stato il suo lavoro, da grande. Si chiamava Bomma perché, quando dovevano decidere il nome, il padre, patito della vela, voleva chiamarlo Timone, per celebrare questa sua grande passione mentre la madre, invece, voleva chiamarlo Pampero. Alla fine la donna convenne che quella del marito fosse una passione più celebrabile e gli chiese soltanto di scegliere un nome meno fraintendibile ed egli scelse “Boma”, solo che l’impiegato dell’anagrafe era di origine sarda e finì per registrarlo come Bomma. Avuta l’epifania sul suo futuro, il Bomma, pieno di eccitazione corse a dirlo a suo padre. Alcuni agiografi raccontano che andò direttamente dal padre, altri che, prima, fece tappa in bagno. Alla notizia “Da grande voglio essere un eunuco” il padre rimase molto colpito, come rivela il referto del cardiologo del pronto soccorso. Mentre lo portavano via in barella il padre del Bomma cercava di spiegargli cosa sognava per lui, con frasi spezzate diceva: “Tu devi navigare, tu devi gridare ordini, TU DEVI DIRE ‘CAZZATE’!!”, “Va bene papà” disse il Bomma. Il comportamento successivo del ragazzo fa chiaramente capire come, in quel caso, egli fraintese ampiamente il padre. Ormai però il sogno di diventare eunuco era radicato dentro di lui, già si immaginava prendersi cura delle trenta vergini dell’emiro. confessò il suo sogno alla madre che, domma pragmatica ma molto diplomatica, cercò di far capire al figlio cosa implicasse tale scelta; gli disse: “Per farlo bisogna andare a Casablanca. Devi darci un taglio!”. Vuoi per la discrezione di quella santa donna che, non volendo scioccare il figlio, usò circonvoluzioni, vuoi per la caratteristica del Bomma di fraintendere, fatto sta che il bambino si immaginò che a Casablanca ci fosse una scuola di formazione per eunuchi e che, dato il costo elevato, doveva smettere di chiedere. Fu così che decise che, appena possibile, si sarebbe trovato un lavoro per guadagnare i soldi per la scuola di formazione. Raggiunti i sedici anni, col suo sogno ben piantato nel cervello, il Bomma trovò lavoro nel settore dei pezzi di ricambio: procurava 127 per Antonio Gagliardi, detto Tonino lo scanna pecore, meccanico di contrabbando. Lavorò alacremente e quando portò a Tonino una 128 nuova fiammante fu promosso a responsabile spedizioni all’estero. Anche in quel caso corse dal padre a raccontare la lieta novella ma lo trovò che bestemmiava in aramaico perché gli avevano fregato la 128 appena presa dal concessionario, ed allora evitò di infastidirlo. Quando compì diciotto anni il padre lo chiamò nel suo studio e gli disse: “Ormai sei un uomo, pensavo di regalarti una 127 usata”, “Grazie papà, me ne occupo io.”; un po’ perplesso dalla risposta continuò il discorso che si era preparato: “Mi sembra sia anche il momento di parlare di api e fiori”, “Papà, lo sai che sono negato per il giardinaggio, ho fatto morire i fiori in salotto ed erano di plastica.”, “No, figliolo, intendo parlarti di sesso.”, “Aaaah, ma mi ha già spiegato la mamma.”, “La mamma?”, “Sì, mi ha raccontato una roba di spinotti delle cuffie e di sterei in cui si mettono”, “E che altro ti ha detto?”, “Che secondo lei farò ancora un sacco di karaoke”. Sceso il silenzio glaciale nella stanza fu il Bomma a romperlo: “E poi papà, io sono negato con le donne.” e lì il padre sorrise e disse: “Conquistare le donne è facile, basta farle ridere” ed anche lì pare che il Bomma non capì bene bene perché la sera stessa andò dalle nigeriane sul lungo Po con un libro di Gino Bramieri. Quello però fu solo un intoppo nella carriera di casanova del Bomma anche perché le cronache lo descrivono come “l’uomo capace di ingravidare una donna con lo sguardo”; certo, ci sono delle malelingue che aggiungono “perché non può farlo con nient’altro” ma sono soltanto malelingue, anche perché tanto era il successo del Bomma con le donne che l’università fece uno studio intervistando quelle che avevano avuto a che fare con lui; studio da cui appare chiaro come il Bomma fosse un amante instancabile ma anche una persona dal cuore puro. Pubblichiamo, di seguito, un piccolo stralcio di tali interviste:

D. Il Bomma è una persona di cuore?
R. Ce l’ha come un bambino di cinque anni.
D. Com’è, a letto, il Bomma?
R. Ce l’ha duro come la pietra.

Certo, gli ultimi studi hanno ipotizzato che, a causa di disguidi in fase di catalogazione, le risposte qui sopra vadano invertite. La carriera di casanova del Bomma finì il giorno che incontrò quella che sarebbe poi diventata sua moglie; era, come suo solito, in discoteca e quando lei lo vide ballare non potè fare a meno di correre da lui: era infermiera e pensava che stesse avendo un attacco epilettico. Chiarito il disguido fu amore a prima vista, lei era miope. Il Bomma però non aveva mai rinunciato al suo sogno e un giorno, mentre erano a letto abbracciati, lui le disse: “Amore, da quando ho dodici anni il mio unico sogno è fare l’eunuco.”, lei lo guardò spalancando gli occhi e disse: “Ma guarda che per diventare eunuco devono toglierti l’uccello”, lui mise le mani sula bocca, terrorizzato “No! Ci tengo troppo a Twitter”, sottolineando ancora una volta la sua perspicacia.

Ribadisco che, a volte, ci sono personaggi su Twitter che mi scatenano la fantasia.

06 ottobre 2014

Bird gerhl


"Non so nemmeno più da dove arriva il dolore", si disse, guardandosi allo specchio, la ragazza dalle ossa cave mentre si toccava le cicatrici sulle ali. Il volto raccontava una storia sottovoce fatta di labbra piegate all'ingiù, di occhi spenti, di rughe d'espressione. "Non so nemmeno più da dove arriva il dolore, ne sono immersa dentro, forse è l'unico posto in cui so stare; quello che mi è stato assegnato". Seduta sul letto sfatto, con i piedi nudi sul pavimento freddo, la ragazza con le ossa cave si ripeteva, come ogni giorno, la storia del destino. "É l'unica ragione, deve essere così" concluse la ragazza dalle ossa cave, si asciugò una lacrima senza farsi vedere dallo specchio e mosse un passo verso la nuova giornata.

23 settembre 2014

Mitologia norrena

La leggenda narra che Thor e Loki avessero un cugino, era egli il figlio di seconde nozze del fratello più piccolo di Odino, quello che aveva lasciato l’attività di famiglia di divinità per aprire una birreria con cucina ad Ásgard. Dopo essere stato abbandonato dalla prima moglie, una modella di calzari scappata con un rappresentante di scudi, si era risposato con una viticoltrice di Campobasso da cui era nato un figlio il cui nome era Diode Glizilla preso, pare, da un fratello prete della mamma; anche se alcune malelingue dicono che il nome vero fosse Diodeglizilla poiché fu la prima parola detta dal padre quando lo vide. Nonostante Odino ed il fratello non si frequentassero i tre cugini erano molto amici e Diode, a parte il vizio di farsi fare degli autoritratti improbabili, era un bravo ragazzo. Pur non essendo un dio come i cugini era comunque un semidio, anche lui dotato di poteri: se Thor aveva il suo martello ed il potere del fulmine e Loki il suo bastone ed il potere dell’inganno, lui aveva il suo cavatappi ed il potere del hangover senza mal di testa. Certo, potrebbe sembrare un potere da poco ma provateci voi ad andare in ufficio dopo una nottata con due mojito, tre moscow mule e mezza boccia di vodka liscia; Diode ci riusciva sempre, certo, la mattina dopo doveva anche capire chi fosse con lui nel letto, tipo una volta che si trovò un certo Enrico, anche se Diode non raccontava mai questa storia volentieri; comunque lui riusciva ad andare in ufficio senza mal di testa, magari gli faceva male altro ma per quello usava antidolorifici. I cugini uscivano spesso insieme e frequentavano “La Valkiria”, la discoteca più famosa di Ásgard, dove cercavano di rimorchiare le ragazze del posto. Thor era famoso per la sua bellezza e non aveva problemi e comunque, essendo figlio di Odino, non ne avrebbe avuti nemmeno se fosse stato un Picasso periodo cubista; dal canto suo Loki, con la storia del potere del bastone aveva molto successo con le milf di Ásgard. Diode però non era da meno perché con il suo apribottiglie riusciva a procurare free drink a iosa. Il giorno in cui Odino chiamò Thor per assegnargli il compito di scendere tra gli umani Diode era insieme a lui, si stavano fumando il muschio della parete nord del castello di Bilskimir. Appreso del suo compito Thor chiese al padre “Non c’è niente per Diode?” e Odino, nella sua immensa saggezza pensò ‘E mo a questo che cazzo gli faccio fare?’ e allora chiamò Diode e gli disse “Tu scenderai sulla Terra e spiegherai a gli umani i pericoli dell’abuso di alcolici”. Dopo essere stati venti minuti a ridere fino alle lacrime Odino, Thor e Diode si ricomposero e quest’ultimo chiese al potente zio “Come porterò a termine questo mio compito?”, “Con il tuo apribottiglie ed il suo potere”, “Non è che si potrebbe avere il potere del bastone?”, “Ancora con questa storia?!” disse magnanimo Odino e aggiunse “Ora scegli un luogo ed un tempo in cui manifestarti” e Diode, che aveva capito tutto, rispose “A Milano, durante il Salone del Mobile”. Prima che partisse Thor gli chiese “Dovrai usare un altro nome, laggiù, per confonderti con gli uomini, anche perché Diode è davvero un nome del cazzo, che nome userai?”, “Pig Floyd” e Odino guardò il cielo ed allargò le braccia in segno di buon augurio.

Il fatto è che su Twitter si incontrano personaggi incredibili e a me viene voglia di dedicar racconti.

18 settembre 2014

Anonimia

Fino a qualche tempo fa avevo impostato la moderazione nei commenti, non il tanto odiato capcha, ma semplicemente la moderazione. Ogni tot di tempo aprivo la pagina dei commenti in sospeso e li approvavo, un po' scomodo ma, tutto sommato, nei commenti da approvare ci finivano quelli giusti, nello spam quelli di spam. Ho levato la moderazione, non perché qualcuno me lo ha chiesto o perché abbia seguito i consigli di qualche sedicente cazzone...ehm santone della "libertà per i commenti", con campagne che telethon gli fa una pippa; no, semplicemente, un giorno ho deciso di levare la moderazione. Perché sto qui a raccontarlo, oltre che per poter scrivere qualcosa visto che c'ho un'aridità dentro che la metà basta? Semplicemente perché, da quando ho levato la moderazione dei commenti mi sono tornate ad arrivare le mail per ogni nuovo commento...compresi quelli di spam!! Ogni giorno cancello una trentina di commenti di spam, dalla posta, tutti scritti in inglese, tutti che si complimentano per la bellezza di quanto scritto (e qui, a dir la verità, mi era anche venuta voglia di lasciarli, i commenti, ché c'è sempre bisogno di complimenti), tutti che hanno, alla fine, un link a cui rimandare. Oltre alla delusione nel constatare che non sono vostri commenti c'è la rottura di palle di dover stare a cancellare le mail; "certo, così almeno fai qualcosa" dirà qualcuno di voi "anche perché ultimamente, a quanto pare, c'hai un'apatia che è asintotica al coma", aggiungerà, penso. Effettivamente anche questo è vero, sto in uno di quei periodi in cui trascino i giorni come fossero palle attaccate alle caviglie e l'unica cosa che vorrei fare è dormire e non sognare, assolutamente non sognare, visto che poi i sogni m'hanno pure scocciato, insieme ai pensieri del mattino, quelli della sera e quelli in mezzo ma poi, alla fine, i pensieri continuano a starci, io a non dormire e le palle, quelle metaforiche, a stare attaccate alle caviglie. Tornando ai messaggi di spam, ne ho giusto appena adesso cancellato uno che diceva "you are so cool", confermando il fatto che vengo preso per il cool, e ne continuano ad arrivare, tanto per dire che, alle volte, magari, la moderazione ha anche il suo perché e che, forse, alla fine, sei un po' un coglione, tu, sì, proprio tu.

09 settembre 2014

Contro

Contro le parole ed il tempo,
i desideri e la logica.
Contro i pensieri e le angosce,
le intuizioni e il dolore.
Contro me stesso,
soprattutto contro me stesso...





02 settembre 2014

Otto

I compleanni sono date da ricordare con piacere o segnano semplicemente lo scorrere del tempo? Appare chiaro dai miei ultimi due post come io stia avendo dei problemi con la gestione del tempo; la verità è che sto avendo problemi con la gestione di un po' di cose. Per quanto riguarda la scrittura mi piace pensare che, come altre volte, questo sia un momento di tiraggio; tipo quando carichi la fionda e tiri l'elastico, lo tiri fino al suo punto massimo di resistenza, fino a quando non ti tremano i muscoli del braccio, e poi rilasci di colpo e il sasso che, di solito, si utilizza con le fionde, schizza via fino a colpire il suo obiettivo, carico di quella forza di cui si parlava prima. Insomma, spero sia uno di quei momenti in cui le parole stanno aspettando la loro occasione per uscire, si stanno organizzando in bande, combriccole, formazioni a testuggine, per poi attaccare. Quanto al resto, credo di trovarmi in uno dei tanti punti bassi dell'oscillazione della mia onda personale, probabilmente risalirò, non importa, so di essere fatto così e questo mi basta.; trentotto anni mi hanno insegnato che non si cambia, la più grande cazzata che ci si possa raccontare è il cambiamento proprio o degli altri, al massimo ci si evolve, ma non si cambia; si finge per un po' fino a quando il beneficio supera il costo, poi si torna sempre quello che si è, nel bene e nel male. No, non sono felice ma nemmeno disperato; mi sono convinto, magari sbagliando, che inseguire una vita piatta, nel senso emozionale, sia uno sbaglio; che ognuno di noi ha la propria ricetta e via così. Ma torniamo ai compleanni, mi facevo la domanda con cui ho esordito perché oggi questo blog compie otto anni e, come ogni volta, mi sono trovato a ripensare a tutto quello che ho scritto in questi anni, il "capitale letterario", chiamiamolo così ma, soprattutto, il "capitale umano" che ho accumulato con questo blog, che non ha prezzo; su questo posso affermarlo senza tema di smentita: SONO FELICE delle persone che questo blog mi ha fatto incontrare, le vite, le storie, le facce anche, quando ho avuto la fortuna di materializzarle. Se ci penso non ci credo, otto anni, sono un bel po' di tempo, un sacco di cazzate dette eh, io lo so, ma anche cose piacevoli, divertenti, azzardo a dire anche belle eppure sono passati e posso dire che questo blog mi rappresenta perfettamente, rappresenta la mia evoluzione, il mio ondeggiare, le mie altalene emotive, i miei scazzi e le mie paturnie; insomma, me. Penso a tutto questo e mi dico che, per quanto in questo momento non sembri, ho ancora fame, ho ancora voglia di far festeggiare compleanni a questo blog anche se, a volte, mi viene voglia di chiuderlo perché tutto quello che porta tanta felicità porta anche tanto dolore e questo solo gli stupidi lo ignorano, e voi non siete stupidi. Virtualmente, vi abbraccio tutti, grazie.

27 agosto 2014

Intermezzo


Perché ci tenevo a farvi sapere che sono vivo, perché così magari me ne convinco anche io; ché le vacanze non sono servite a molto se mi sveglio la mattina che già mi son rotto i coglioni e che prima di alzarmi ho già pensato troppo, fino a sudare la rabbia, a volte, la tristezza, in altre, la voglia di fare, spesso. Perché tutte le parole si sono incastrate tra di loro e si spingono e non vanno da nessuna parte, saranno in controesodo anche loro, bloccate sull'autostrada del cervello. E poi il pezzo è magnifico, che non guasta.

18 agosto 2014

Sospesa...

Il problema del tempo è che anche quando ne hai lui tende a sfuggire, tende a fare come gli spiccioli quando cadono di tasca, rotola sotto i mobili; vola via dalle fessure, come la sabbia. Il tempo, anche quando si dilata, si estende, non basta mai perché quello che dovresti spendere lo sperperi in pensieri che si disperdono in mille rivoli pur essendo sempre il solito fiume. Ho promesso parole da giorni, da mesi, e sono tutte qui, impilate e sovrapposte sopra le mensole della mia testa, come in una polverosa e antica libreria che non vende libri, ma li accumula. Ho mille inizi su mille fogli di carta e nessun senso compiuto; cento bandoli di altrettante matasse e, come un pendolo, oscillo tra tutti i sentimenti senza, per fortuna, stabilizzarmi mai.

La foto l'ho scattata io, con il cellulare, giusto qualche sera fa, a Polignano. Vi racconterò del viaggio, giuro, vi racconterò. Come vi racconterò tante altre cose, prima o poi...

11 agosto 2014

Fuori

Fuori, sì viviamo fuori
ma fuori davvero
ci fa paura di andare
fuori dagli uomini
fuori dal cielo
fuori non riesco neanche
a immaginarlo vero...


Scusate, ho ancora gli occhi pieni di luce e la bocca piena di sabbia, la testa piena di parola e il cuore pieno di mancanze. Appena saprò come farlo cercherò di raccontarvi...

27 luglio 2014

Kill Bill reloaded

[In attesa di un titolo]


Davvero credi che la tua mossa dei cinque colpi non abbia funzionato, Beatrix? Pensi che io abbia fatto più di cinque passi e sia tranquillamente andato avanti? Che abbia camminato senza che il mio cuore esplodesse? Mi hai guardato bene Beatrix? Ognuno dei cinque colpi che, silenziosa, mi hai sferrato, hanno raggiunto il loro obiettivo, hanno espanso la loro energia, sono entrati dentro di me. Tu sei entrata dentro di me Beatrix, a quel punto avevo solo cinque passi da fare, cinque passi da percorrere lungo la mia strada e poi il mio cuore sarebbe esploso; tu mi vedi qui, mi senti, e pensi che i tuoi colpi non siano andati a segno perché sono passati anni da quando mi hai colpito, cinque colpi delle tue mani leggere, delle tue dita sottili Beatrix e tu ti chiedi perché sia ancora in piedi, perché il mio cuore non è esploso, perché abbia camminato e ti dici che hai sbagliato Beatrix, che Pai Mei non ti ha insegnato la vera mossa dei cinque colpi, che, alla fine, non sei realmente stata capace di colpirmi. L’errore sta qui Beatrix, adesso alzi su di me l’indistruttibile spada di Hattori Hanzo e non hai ancora capito il senso reale della mossa dei cinque colpi di Pai Mei; pensi che io abbia camminato dopo quel giorno di tanti anni fa Beatrix, e che il mio cuore non sia esploso. Guardami Beatrix, io ho fatto i cinque passi e mi sono fermato, non ne ho fatti altri, non ho più mosso un passo da quel giorno, sono anni che sto fermo, che non mi sposto; il mio cuore non ha più battuto da quel giorno Beatrix, è esploso, e quello che tu vedi e per cui ti convinci che la tua mossa dei cinque colpi non abbia funzionato è proprio la dimostrazione che ha funzionato perfettamente. Pai Mei ti ha insegnato la mossa giusta Beatrix, solo non ti ha spiegato il vero senso della mossa dei cinque colpi, che non è una mossa di kung fu o, meglio, non lo è nel senso in cui la si intende normalmente; i cinque colpi sono le vie tramite le quali entri dentro una persona, sono i cinque sensi Beatrix. Colpisci la vista e poi l’udito, alla distanza, e ti avvicini e colpisci l’olfatto, ancora un passo, il contatto, e colpisci il gusto ed il tatto e attraverso le cinque vie le energie raggiungono il cuore; non te ne accorgi subito, no, fai giusto cinque passi, quelli per vivere lo spazio intorno, ed il cuore esplode e colui, o colei, che è stato colpito rimane lì, per sempre; capisci Beatrix? Spesso la mossa più letale è proprio la vita e anche se tu credi che io abbia fatto il sesto passo, che gli anni mi abbiano fatto fare tanta strada, che il cuore abbia battuto milioni di rintocchi; la verità è che la tua mossa è andata perfettamente a segno ed io sono rimasto lì, da allora e non mi muoverò più. Ora mi ferisci con la spada di Hattori Hanzo ma sono solo scosse di vita, capisci Beatrix?

Di solito i miei reloaded riguardano libri, questa volta mi sono dedicato ad un film (che nemmeno ho visto tutto, se è per questo?

25 luglio 2014

Piccolo spazio pubblicità

Milonga improvvisata


Dalla finestra aperta mi arriva un po’ della brezza di mare, me ne faccio poco, con questo caldo, ma è meglio di niente; meglio di sudare anche soltanto respirando. Mi sposto sul balcone di questo albergo con poche pretese, affacciato sulla sabbia; vedo la costa puntellata di luci, l’afa rende opaca anche la notte e la luna, enorme, è velata ai bordi. Un refolo un po’ più forte mi porta sollievo e una sensazione di musica; decido di scendere a passeggiare sulla riva, con la scusa di stancarmi e rinfrescarmi con in piedi in acqua ma, in realtà, mi spingo ad inseguire quell’ipotesi di melodia che m’ha rapito... 

il resto potete leggerlo qui

24 luglio 2014

Intermezzo


Il coccodrillo è in cerca
sempre di una preda
La preda fa di tutto
perchè lui la veda

22 luglio 2014

Segnalibro

Mi piacciono i segnalibri, ne ho di diversi ma, spesso, uso anche le cose più disparate per segnare l'ultima pagina del libro che sto leggendo. Confesso che una delle cose che mi manca di più quando leggo un ebook, oltre al profumo della carta ed al fruscio delle pagine, è proprio non mettere un bel segnalibro all'interno; certo, è meno facile perdere il segno perché, si sa, per quanto strette siano le pagine magari il libro ti casca e scappa fuori anche il segnalibro ed allora devi cercare un segno diverso per capire a che pagina eri, un ricordo, una sensazione, un leggere scurimento delle pagine già lette; però il fatto che non metto il segnalibro, fisicamente, a segnare la chiusura momentanea, mi manca un po'. Tra i tanti segnalibri che ho, tutta roba da nulla eh, non immaginatevi sciccherie, ne ho uno che riproduce "Golconda" di Magritte; avete presente no? Il quadro con gli omini con la bombetta che piovono sulla città, è famoso. Quel segnalibro l'ho comprato qualche anno fa, quando sono andato a vedere la mostra di Magritte a Palazzo Reale, a Milano; "Golconda" non era tra i quadri esposti ma ce n'erano comunque di bellissimi, tipo "L'impero delle luci" (ora non chiedetemi se era il numero 1 o il numero 2). Comunque "Golconda" l'ho visto dopo qualche anno al MoMa (o al Met, oppure all'Art Institute di Chicago, mo non mi ricordo bene, ne ho visti così tanti, quell'anno), o, meglio, uno dei "Golconda" (e sì, perché anche di quello ce n'è più di uno) e vi assicuro che è una meraviglia, come tutti i quadri di Magritte. Adoro Magritte, il suo surrealismo mi fa impazzire, per esempio mi piacciono un sacco tutti i suoi "Ceci n'est pas...", tipo il più famoso "Ceci n'est pas une pipe", lo conoscete no? Quello che rappresenta, appunto, una pipa; sono stranianti quei quadri, il bello è proprio quello, ti rappresenta una cosa e ti dice che non lo è; è come quando tu pensi che Tizio (o Caio, o Sempronio) sia in un modo e poi arriva qualcuno che ti dice "No guarda, ti sbagli, Tizio (o Caio, o Sempronio), non è come pensi" e tu, proprio come davanti ad un quadro di Magritte, pensi "Ma forse ha ragione, Tizio (o Caio, o Sempronio) non è come penso io, lo saprà bene, lo conosce meglio di me", così come per la pipa, pensi "Magritte avrà ragione, l'ha dipinta lui, non sarà, come penso io, una pipa; sarà altro, come dice lui". Poi guardi meglio (sia la pipa che Tizio (o Caio, o Sempronio) ed è proprio come pensavi tu e che il surreale sta proprio in queste persone che insistono che Tizio (o Caio, o Sempronio) non è come pensi tu, così come Magritte che insiste che non è una pipa. Insomma, dicevo che ho questo segnalibro raffigurante Golconda e, devo dire, mi piace un sacco, quando lo chiudo fra le pagine del libro, fare in modo che uno degli omini sembri appoggiato al bordo alto del libro, come se non stesse cadendo dal cielo, come se, semplicemente, passeggiasse sul libro. Così, per dire.


20 luglio 2014

Come tutti gli anni

Come ogni anno, da quando questo blog esiste; come ogni anno, senza commenti perché la memoria è un esercizio collettivo che si fa in solitaria. Bisogna guardare dentro la propria testa e dentro il proprio cuore e togliere la polvere che abbiamo accumulato sui ricordi.

11 luglio 2014

L'incanto del bagno 49

L’altalena ondeggia appena, mossa dalla brezza marina che, in alcuni momenti si illude di essere vento e , come con un colpo di reni, dà una sferzata alla sabbia, cancella e ricompone la serie di impronte che, in coppie, partono ed arrivano a quelle giostre, giusto poco prima del muretto che divide la spiaggia dalla strada. Tutto intorno c’è quella luce opaca delle albe nuvolose ed il mare, da essere solo un’ipotesi nel nero della notte, comincia ad assumere il colore del piombo. Con la luce tutto acquista maggior dettaglio: le cabine con la vernice consumata dalla salsedine, il campo da beach volley con la rete tesa come una corda di violino, la scarpa con il tacco rotto, giusto al limite della passerella di legno. La brezza della notte ha trovato coraggio e si improvvisa vento a tutti gli effetti; fa mulinare quella che sembra una vela, giusto dietro la prima cabina alle spalle dell’altalena, quella davanti al muro delle docce esterne. La vela è, in realtà, una gonna lunga, ampia, che ad ogni folata di vento scopre due gambe livide, un piede senza scarpa. Il viso è semicoperto da lunghi capelli biondo cenere, con un accenno di ricrescita più scuro; si intravedono lineamenti netti, affilati, di chi ha subito molta vita, occhi sbarrati dalla consapevolezza del terrore, segni viola sul collo, come un collier di rabbia. La troverà uno dei bagnini del bagno 49 quando, tra poco meno di un’ora, arriverà a sistemare le sdraio.

09 luglio 2014

Una nuova avventura...

Ho avuto due blog "comunitari", se aprite il mio profilo ci sono ancora, si possono ancora leggere ma non vanno più avanti; non vanno più avanti perchè di tutti gli autori, sia di uno che dell'altro, sono rimasto solo io e ci tenevo eh, soprattutto a "Dammi i dettagliuzzi", blog che consideravo avere un futuro ma che poi il coautore lasciò a me sparendo nel nulla. Vi confesso che questa cosa mi lasciò con un bel po' di amaro in bocca sulle collaborazioni, da allora ho solo scritto qualche post in collaborazione con una persona davvero speciale (ma questa è un'altra storia); per questo, quando Stefania mi ha contattato per chiedermi se volevo partecipare alla sua idea di blog "comunitario" di racconti, ci ho pensato su per un po' poi, visto che il cervello ha sempre bisogno di stimoli, ho accettato e con gli altri folli è nato SENZA QUARTA che, va da sè, vi invito a seguire. Questo blog qui NON CHIUDE ASSOLUTAMENTE, questo blog continuerà ad andare avanti come sempre; alcuni racconti verranno scritti qui e lì, alcuni solo lì, altri solo qui; continuerò a mettere canzoni, frasi, emozioni, sensazioni, idee, pensieri, fregandomene di un bel po' di cose. Devo finire i tre parole e devo scrivere tante altre cose quindi, ripeto, QUESTO BLOG NON CHIUDE ma da adesso potrete leggermi anche altrove.

07 luglio 2014

Intermezzo



Momento "Revival", per tutti quelli che, come me, seguivano la serie tv. Secondo me questo pezzo, a ritmo, vale quanto "Happy" di Pharrell!

03 luglio 2014

Sympathy for the devil


Please allow me to introduce myself...
Ciao, sono quello che ti guarda tutte le mattine, dallo specchio, sono l'abisso in cui ti rifiuti di guardare. Sono il demone che ti striscia dentro e che rinchiudi nelle pieghe più nascoste della tua testa, sono il male, il tuo. Lo sai bene che il male è necessario, che senza buio la luce non avrebbe nessun senso di esistere ed io sono il tuo buio; sono quello che ti guida la mano quando scrivi i tuoi racconti neri, scuri come la pece; sono la tua cattiveria che affiora, come lo zucchero sui frutti lasciati essicare, come il sale nei salumi stagionati male. Il male, appunto. Sono quello che la tua coscienza tiene a bada, quello che, a volte, si porta a bere la tua coscienza. Sono il te stesso che nascondi nel labirinto delle tue paratie stagne, sono il puntello che non ti fa crollare. Ogni giorno ti guardo dallo specchio, ti vedo fare i tuoi soliti bilanci quotidiani, ingoiare alcuni rospi, partorire altri sorrisi ed intanto me la rido, mi gingillo con le parole, sai? Sì, con quelle parole che ti tieni dentro, quelle che ti offro sempre su un piatto d'argento ma che tu, stoicamente, rifiuti, non dici, ricacci da me. E rido. Sì, rido di te e me insieme, tu così pubblico, io così ben nascosto, il diavolo sta nei dettagli, no? Nel guizzo degli occhi, nella lama di sorriso, nel gesto trattenuto delle mani; io sto lì, lo sai bene, lo senti anche tu che ci sono perchè tu sei me ed io te, tu che sei bugiardo e infido così come sei fidato e chiaro. Sono quello che ti mette in testa le immagini peggiori, i pensieri che ti fanno ritorcere lo stomaco, che te lo stringono in una morsa, i pensieri che non ti fanno dormire. Sono io quello che ti porta alla bocca le parole cattive, quelle che riesci sempre a tenerti dentro, quelle che sai bene che sono la verità. Sei troppo buono, lo sai? Sei così buono che io è necessario che ci sia, sempre, ma tu mi trattieni, mi blandisci, mi concedi parole imbandite su una pagina bianca ed io mi accontento, non preoccuparti, il tuo diavolo si tiene le parole ma mi senti, vero? Sono il ruggito che ti vibra dentro, la rabbia che ti stringe la mascella, sono quelle cazzo di verità che non sbatti in faccia mai, cazzo, mai. Sono l'ultimo baluardo della tua sanità mentale, il male è quello, non è mica follia, il tuo demone ti vuole bene, il tuo demone ti regge in piedi. Tu sei quello che sorride, io quello che ghigna; tu sei quello che capisce, io quello che deride; tu sei l'empatico, io l'antipatico; io sono il tuo nocciolo duro, il nucleo centrale e sono lì che attendo, perchè prima o poi mi farai uscire, prima o poi non sorriderai più, scoppierai a ridere e tenendoti la pancia dirai tutti i "non avete capito un cazzo", riderai e gli occhi non saranno i tuoi, saranno i miei, non saranno i tuoi denti, saranno le mie zanne e non saranno le tue parole, saranno, finalmente, le mie e sarà un piacere presentarsi al mondo...
Pleased to meet you
Hope you guess my name
Non abbiate paura, è solo il mio post numero 666

25 giugno 2014

La misura del cazzo che me ne frega

Giusto poco fa, in un simposio su Twitter, si discuteva animatamente con altri esimi studiosi sulla misura che può assumere, in particolari situazioni, il cazzo che me ne frega. La discussione contrapponeva gli “statici”, che ipotizzano una misura costante del cazzo che me ne frega, uguale per tutti e molto ampia, e i “dinamici” che, invece, sono dell’idea che il cazzo che me ne frega sia variabile. Essendo io uno dei massimi esperti del cazzo che me ne frega vorrei, dunque, chiarire una volta per tutte la querelle: il cazzo che me ne frega, che alcuni, molti, chiamano anche “il cazzo che me ne fotte” e altri ancora, meno, “il cazzo che me ne sbatte”, per lo stesso riferimento all’organo in questione, è variabile. La sua elasticità o anelasticità varia in base a molte, scusate la ripetizione, variabili; anche la stessa identificazione della misura non ha avuto una classificazione metrica precisa, c’è chi parla di metri, chi di chili, chi di yarde, chi di pounds, metri quadri, metri cubi, eoni, parsec e via così; questo, però, non incide sul fatto che il cazzo che me ne frega subisca forti variazioni, anche basate su progressioni geometriche, sulla base di molteplici fattori. Uno dei fattori è lo stato del soggetto che chiameremo “passivo”, ovvero colui che quantifica il cazzo che me ne frega; se il soggetto passivo si trova in una condizione di empatia, dovuta al buon andamento della giornata, oppure, più probabile, all’assunzione di sostanze psicotrope, il cazzo che me ne frega è di dimensioni molto ridotte, a volte anche nulle, anche di fronte a notizie di importanza vitale quali “Hai visto il nuovo taglio di capelli di Rihanna?!”. Sono chiaramente, questi, stati di alterazione che capitano raramente, per fortuna, perché, di solito, la misura del cazzo che me ne frega del nuovo taglio di capelli di Rihanna è pari, spesso e volentieri, ad un campo di calcio compresa pista di atletica. Un altro dei fattori che incide sulla misura del cazzo che me ne frega è il soggetto che chiameremo “attivo”, ovvero quello che interagisce con il soggetto passivo e su cui quest’ultimo parametrizza il cazzo che me ne frega. Tale variabile è soggetta, chiaramente, al concetto quanto mai poco identificabile e valutabile dell’affezione; c’è un rapporto di semi proporzionalità indiretta tra affezione e cazzo che me ne frega: più è alta l’affezione nei confronti del soggetto attivo più è bassa la misura del cazzo che me ne frega, e viceversa. Per fare un esempio che può essere chiaro a tutti, se la persona che amate vi comunica che il suo punto di vista sulla questione mediorientale è di favore ad un sottogruppo di matrice cattomusulmana composto da tre membri che non si conoscono, voi chiedete addirittura i nomi dei tre; mentre se il collega dell’ufficio vicino che spara cazzate alla velocità di un Uzi vi chiede quale sia l’indirizzo mail del cliente su cui state lavorando così da mandargli il report del lavoro al posto vostro, firmato però da voi, voi rispondere: “sono le quattro meno un quarto”. Questo avviene perché nel primo caso la misura del cazzo che me ne frega è praticamente nulla, in inversa proporzionalità con l'affetto che provate (o con la misura del reggiseno del soggetto attivo); mentre nel secondo caso la misura del cazzo che me ne frega è pari alla distanza tra la Terra e la Luna passando prima da Plutone. I più attenti di voi avranno notato che, però, ho parlato di SEMI proporzionalità, per il semplice motivo che esiste quello che noi scienziati chiamiamo BBP, Breaking Ball Point, Punto di Rottura dei Coglioni che sfalsa la proporzionalità relativa alle alte affettività: se una persona verso cui provate alta affettività insiste su posizioni chiaramente sbagliate e controproducenti che continua incessantemente a professare come verità assolute autoconvincendosi, si raggiunge il BBP e la misura del cazzo che me ne frega raggiunge estensioni che vanno a comprendere anche la quarta dimensione. L’ultimo dei fattori che possono modificare sensibilmente la misura del cazzo che me ne frega, forse il più importante, è l’oggetto su cui si basa il cazzo che me ne frega, l’argomento specifico; va da sé che, su argomenti importanti, quali il mio stato di salute, lo stato di salute dei miei cari, cosa si mangia a pranzo e, soprattutto, l’ammontare delle birre in frigo, il cazzo che me ne frega rasenta lo zero e, a volte, è anche un numero negativo; mentre, nel caso di comunicazioni riguardanti personaggi mai cagati nemmeno di striscio, posizioni politiche basate sull'estremismo, esultanze sportive di dubbio gusto ed esposizioni personali non richieste, la misura del cazzo che me ne frega arriva a livelli di guardia. Come avete visto, dunque, la misura del cazzo che me ne frega non è affatto statica ma dinamica e variabile sulla base di “quando”, “chi” e “cosa” e raggiunge, spesso e volentieri, dimensioni ragguardevoli.

22 giugno 2014

Try walking in my shoes



Now I'm not looking for absolution
Forgiveness for the things I do
But before you come to any conclusions
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes

20 giugno 2014

Antenne


La sera si fa spazio dentro il giorno, piano, quasi chiedendo permesso e muta la luce, senza uno stacco, senza un'indecisione.

15 giugno 2014

I awake



La prima cosa che gli venne in mente fu il desiderio di non essere lì, di cacciarsi in gola quella fottuta birra, alzarsi e, con il passo più svelto che potesse, raggiungere la prima fermata della metro disponibile, vedere quale treno partisse prima e saltarci su, direzione “vaffanculo”. Bevve solo un sorso, sperando buttasse giù quel nodo enorme e, magari, si portasse appresso un po' d'aria perché gli sembrava non ne entrasse più da un pezzo. Ascoltava capendo tutto e sentendo niente o sentendo tutto e capendo niente; dentro gli si sommavano “ma” come se fosse un'addizione infinita, emetteva dei rantoli che, a quanto pareva, in realtà erano parole perché ottenevano risposte di senso compiuto mentre dentro gli si affollavano pensieri di senso incompiuto. Anche il secondo pensiero fu quello di buttare giù la birra e alzarsi di scatto, come se la sedia fosse arroventata, ma temeva che gli sarebbero tremate le gambe; era sicuro gli sarebbero tremate le gambe e si era immaginato alzarsi con l'intenzione di sembrare risoluto ed invece ricadere con un tremito delle ginocchia e fermarsi con le mani sul tavolo, magari rovesciando il suo bicchiere vuoto e quello di lei, ancora pieno, ed invece di sembrare risoluto, sarebbe sembrato impacciato, imbecille ed infantile; tutte cose che, era consapevole, lo caratterizzavano più di “risoluto”. L'immagine dei bicchieri rovesciati lo bloccò, lo tenne seduto in quell'attimo di silenzio che si era formato; quel silenzio imbarazzato ma non del tipo che cerchi di baciare qualcuno e sei sicuro che quel bacio ci sarà e l'altra persona si ritrae, no, più che altro un silenzio imbarazzato di verità, di quelli fatti principalmente di non detti, di percepiti. Guardò il piatto con gli scampoli di cibo ma fu come se il suo stomaco avesse scattato l'ultima foto e si fosse chiuso del tutto il diaframma; gli venne in mente l'immagine di quei palloncini usati per formare figure, quei lunghi salsicciotti che vengono girati fino a stringersi, ecco, il suo stomaco era così in quel momento: un lungo salsicciotto con una strozzatura al centro. Ebbe quasi la nausea ed il “quasi” fu solo un'illusione, non riuscì nemmeno a capire bene cosa ci fosse nel piatto, cosa sul tavolo, cosa intorno; tutto sfocatamente indistinto, come qualcosa che sappiamo che c'è ma non ce ne frega praticamente un cazzo. Bevve un altro sorso come se fosse una medicina amara, sperando davvero fosse una medicina miracolosa che lo curasse dal male. Lei gli parlava e lui, incredibilmente, rispondeva ma le parole che tirava fuori non erano esattamente le stesse che gli venivano alla mente o, meglio, non erano le sole, come si affrettassero all'uscita a suon di spintoni e “Passo io!”, “No, io!” ed avessero la meglio, come in molte occasioni della vita, gli “Ho capito”, i “Certo”, giusto un paio di “Sì, ma” e nulla di più. Ancora una volta ebbe l'impulso di trangugiare la birra rimasta, quella che continuava incessantemente a cedere la sua freschezza all'aria intorno o a prendere il calore da essa; ancora una volta si trattenne perché quella tra la voglia di rimanere e la voglia di andare non era un'uguaglianza ma era ancora una disuguaglianza con il segno di “maggiore di” in mezzo; consapevole che con lei sarebbe sempre stato così. Le parole si fermarono un attimo, come se si fosse accorta del suo trambusto; giustificò la pausa con un sorso della sua bevanda verde. Lui si chiese il perché dell'accondiscendenza delle parole che aveva detto, del perché, nell'affannarsi all'uscita, l'avessero sempre vinta loro, con lei, e si rispose che la colpa di cui si era macchiato quasi tre anni prima aveva tolto per sempre autorevolezza al suo punto di vista, questo sarebbe sempre stato ricoperto di una luce sbagliata, di una puzza di errore. Gli ripassò in testa tutto il rosario di appunti, considerazioni, puntualizzazioni, che portava dentro e che aumentava con il tempo ma spense l'affollamento dentro la sua gola con l'ultimo sorso di birra calda; conclusero uno dei mille discorsi senza conclusioni e si salutarono con un sorriso. Strinse i denti e resistette fino alla scala della metro, sparito alla sua vista si accasciò contro il muro, come se la tensione di ogni resistenza autoimposta fosse terminata di colpo; si appoggiò alla parete respirando come in debito d'ossigeno, come dopo una corsa; avvisò chi lo attendeva che avrebbe tardato e partì per un pellegrinaggio dei loro luoghi.

31 maggio 2014

Intermezzo



Un giorno la vedrò con i miei occhi, lo so, ergersi dentro un alba rossa dai riflessi d'oro; la vedrò con i miei occhi e sarà come averla già vista dai racconti di altri occhi.
Un giorno ascolterò la voce del muezzin dal minareto richiamare i fedeli alla preghiera, lo so, la ascolterò con le mie orecchie e sarà come averla già sentita dai ricordi di altre orecchie.
Un giorno annuserò odore di spezie a mille, dai banchi dei mercati, lo so, li annuserò con il mio naso e sarà come averle già annusate, nel bruciore di altre narici.
Un giorno assaggerò il çay, seduto al tavolo di un bar, guardando la vita scorrermi intorno, lo so, lo assaggerò con la mia bocca e sarà come averlo già bevuto nel palato di un'altra bocca.
Un giorno accarezzerò uno dei tanti gatti che, amati, sostano per le sue strade, lo so, e lo farò con la mia mano e sarà come averlo accarezzato nel brivido di un'altra mano.
Un giorno, lo so.

26 maggio 2014

Un notte senza nubi

Disclaimer: Il post seguente è molto crudo, a voi decidere di leggerlo o meno.

“Ciao Guido, ben svegliato. Io sono Mario, sono quello che ha ripulito dopo che sei stato da Beatrice; complimenti, proprio un bel lavoro: l’hai presa a calci e pugni, aveva la faccia fracassata e dei lividi enormi su pancia e schiena, anche alle spalle l’hai colpita. Poi le sei salito sopra, sul divano, aveva un po’ di costole rotte, e l’hai strangolata a mani nude; aveva gli occhi sbarrati, una fine terribile. Il capo mi aveva detto che sei una merda ma sei davvero di livello pro, ti faccio un applauso. Una fine terribile dicevo ma nulla in confronto a quella che stai per fare tu; su, non fare quella faccia, realmente credevi che il capo ti avrebbe fatto passare anche questa? Ti aveva ordinato di stare lontano da Beatrice e tu hai disobbedito; sai, per caso, di qualcuno che ha disobbedito al capo ed è rimasto vivo? Io no, e ti assicuro che da ‘addetto alle pulizie’ sono informatissimo. Mi ha solo detto di dirti che questa volta gli hai fatto girare le palle più dei soldi. Ma vedo che ti stai guardando intorno, siamo in un’officina di riparazioni auto e prima che tu ti illuda, ti dico che siamo in periferia, nella zona industriale, e che non c’è nessuno nel raggio di chilometri, nemmeno coppiette che trombano. Ah, se stai pensando che qualcuno si accorgerà della tua scomparsa, beh, non preoccuparti, sono un ripuliture professionista, tu non sarai assolutamente scomparso, sarai partito. Ti posso dire che ho provveduto, poco fa, a comprare, con la tua carta di credito, due biglietti aerei per il Brasile, uno a tuo nome, l’altro a nome di Beatrice. Sul lavoro invierò la lettera di dimissioni in bianco che hai firmato quando hai cominciato a lavorare per il capo, come tutti; dimissioni che, naturalmente, verranno accettate immediatamente. Da casa tua e da casa di Beatrice mancheranno indumenti e passaporto, e risulterete nell’elenco dei decollati, non ci vuole molto a craccare il sistema, non sei l’unico bravo con i computer. In pratica sarete scappati insieme, come reciterà l’sms che invierò ai genitori di Beatrice dal suo cellulare; quella povera coppia ci crederà perché sarebbe solo l’ennesima volta che la convinci, sarebbe solo l’ennesimo ritorno con te. A nessuno, a quel punto, verrà in mente di controllare se in Brasile sarete realmente entrati e, anche fosse, mi sono occupato di casa di Beatrice, mi occuperò anche di qui, domani mattina non ci sarà il minimo segno che racconterà quello che sto per farti. Qui nessuno farà domande, se ancora non lo hai capito anche questa officina è del capo, qui, domani, smonteranno pezzo per pezzo la tua auto e la faranno sparire. Domani però, per questa notte invece è tutta per me ed io farò sparire te, pezzo per pezzo. Anche se ti sei già pisciato addosso, ti starai chiedendo perché proprio una officina, c’erano sicuramente tanti altri posti in cui, dopo, avrei dovuto faticare molto meno per ripulire ed invece ho scelto questo. Ti spiego subito cosa ti sto per fare; premetto che, visto il poco tempo a disposizione, ho dovuto improvvisare ma penso di aver organizzato qualcosa di efficiente, almeno per quanto mi riguarda. Per prima cosa ti anestetizzerò nuovamente e dopo averti spogliato ti stenderò su quel piano di lavoro alle tue spalle, a pancia in giu. Dopo averti bloccato per bene gambe e braccia ti aprirò dalla cima del cranio fino alla punta del coccige; non preoccuparti, come sai faccio il ‘ripulitore’, ho un’ottima conoscenza dell’anatomia; allargherò i muscoli della schiena fino a mettere in mostra la tua spina dorsale, cauterizzerò i vasi sanguigni con un saldatore ad arco voltaico, sai com’è, devo adattarmi a quello che c’è qui, non voglio mica farti morire dissanguato. Fatto questo lesionerò ogni tendine che collega la spina dorsale al resto del corpo ma starò ben attento a lasciare intatti i nervi. Sei diventato bianco e tremi, ma mica ho finito; taglierò con la sega tutte le costole che partono dalla spina dorsale, la staccherò anche dalle clavicole e dall’osso pelvico. Una volta esposta per bene la spina dorsale ci passerò intorno queste, le vedi? Sono le cinghie che usano per tenere i motori quando li prendono dai cofani e li portano sul banco di lavoro, sono resistentissime; per spostarli utilizzano quell’argano a motore che è sospeso sopra il tavolo. Ancora non capisci, lo vedo da come mi guardi, sei terrorizzato ma non capisci; ti spiego, le cinghie le attaccherò all’argano e poi aspetterò che ti svegli dall’anestesia, non ci vorrà molto, ho calcolato bene la dose rispetto al tuo peso. Quando il torpore sarà svanito e comincerai a sentire il dolore dell’intervento che ti avrò fatto, farò partire l’argano, prima a potenza media, le cinghie si tenderanno e cominceranno a tirare la tua spina dorsale che incontrerà solo la resistenza dei tendini lesionati e dei nervi, impazzirai di dolore; a quel punto metterò l’argano alla massima potenza e ti strapperò la spina dorsale. Naturalmente ti avrò tolto il bavaglio e mi godrò sia le urla che, se ce la farai ad articolarle, le suppliche, tanto, come ti ho detto prima, non ti sentirà nessuno. Il tuo corpo poi lo chiuderò in un sacco e lo farò sparire nell’acido, con calma. Ma che fai, piangi?! Come Beatrice quando la massacravi con le parole e con le mani? Ma forse è semplicemente fretta, la tua, meglio che mi metta all’opera; non preoccuparti, me le lavo le mani. Ah, se, per caso, ti stessi chiedendo il perché di tutto questo, beh, è per ‘affetto’, mi ricordi una persona, la persona che mi ha fatto diventare quello che sono.”

La fine di Guido era da giorni che aspettava nel mio taccuino...

25 maggio 2014

23 maggio 2014

Terra bruciata

Avete presente le reazioni chimiche? Ci sono quelle immediate e quelle che ci mettono un po', quelle che, magari, da sole non fanno tutti questi danni ma che, combinate con altre, diventano pericolose. Ecco, come gli strati accumulati di diverse cose adesso ho traboccato il vaso, in questo momento esatto. Mi sono rotto il cazzo. Davvero, mi sono rotto il cazzo. Poi magari si reincolla ma, sinceramente, ne ho le palle piene.

26 maggio 2014 ore 9:20
A chi mi ha commentato, a chi mi ha scritto, a chi mi ha chiamato, a chi no. A chi ha capito tutto, a chi non ha capito nulla, a chi ha capito metà. A chi ha spronato, a chi ha taciuto, a chi ha colto l'occasione di parlare, a chi non ha colto l'occasione di stare zitto. A chi mi è vicino, a chi lo è stato, a chi lo sarà.

GRAZIE.

22 maggio 2014

Intermezzo


Some of them want to use you
Some of them want to get used by you
Some of them want to abuse you
Some of them want to be abused.

20 maggio 2014

Ma poi ho pensato

Volevo scrivere un post di politica, magari partire dalle elezioni amministrative che si svolgeranno nel mio ameno paesello e raccontare di coalizioni quantomeno assurde, di soggetti incomprensibili, quando va bene, impresentabili, in tutti gli altri casi. Magari avrei pure potuto piazzare qualche "santino" con queste facce assurde, divertenti, spaventose. Poi sarei passato alla politica nazionale e a tutto quello che, ormai da anni, ci sta girando intorno. Poi ho pensato che sono strano io, sì, perchè, sinceramente, a me non spaventano quelli che arrivano, a me spaventano quelli che ci stanno, soprattutto quelli che ci stanno da generazioni, proprio gli italiani. Sono strano io perchè a me sentire "Sono oltre Hitler" mi fa venire solo il vomito, solo rabbia, solo paura e se penso a chi ha votato il soggetto, beh, veramente mi si apre un buco nero nell'anima e ci caccio dentro tutte le parole che è meglio non dire. Sono strano io perché ho studiato tanto, studio ogni giorno, eppure devono essere dei perfetti incompetenti che, dai giornali, dai bar, dalla viva voce del popolo, mi devono spiegare la MIA materia. Sono strano io perchè sono un commercialista che sa bene che pericolosità c'è nella piaga dell'evasione, DA CHIUNQUE SIA FATTA, anche dal più piccolo dei soggetti. Sono strano io perché mi piace si mantengano le promesse e si scontino le pene, tutte; strano perchè non urlo al complotto, non guardo le scie chimiche, non penso di avere un chip sotto pelle. Sono strano io perché mi viene sempre da pensare quando gli scampati eravamo noi e ci trattavano di merda e ci incazzavamo ed adesso per gli altri non vale. Sono strano io perché non sono per la lotta, per la violenza, perchè penso che portino sempre dal lato sbagliato della ragione. Sono strano io perché non sono fatto per l'iperliberismo e nemmeno per il suo contrario. Ho constatato di essere così strano, troppo strano per scrivere di politica; e poi sono troppo impegnato a ritrovare tutti i numeri della rubrica, che ho perso.

19 maggio 2014

Un metro e mezzo

No, non sto citando la canzone "un giudice" di De Andrè; ieri mi è caduto il cellulare da circa un metro e mezzo, di piatto, sul marciapiede.


Vabbè, direte, tanto il cellulare è vecchio, volevi cambiarlo, adesso passi la scheda sim nel nuovo e via. Ho i numeri memorizzati nella memoria interna.
Vabbè, direte voi, tanto c'è il programma di gestione della Samsung, il Kies, con quello i backup effettuati si possono trasferire su altri telefoni. Non faccio un backup da mesi.
Vabbè, direte voi, tanto il su menzionato Kies, basta collegare il telefono al pc e scarica in automatico i dati. Bisogna attivare la funzione dal meno del cellulare e per farlo serve che funzioni lo schermo.
Vabbè, direte voi, allora sei scemo. Sì.

Bestemmio in circassico da ieri pomeriggio, adesso devo trovare un modo per recuperare almeno rubrica, foto e video. Se alcuni di voi non mi sentono il motivo ora lo sapete. Per altri è proprio una scelta.

16 maggio 2014

Punti ciechi

Una delle caratteristiche delle merde come Guido è la ripetitività; e la ripetitività, va sa sé, implica prevedibilità. Ogni mattina colazione nello stesso posto, la solita battuta alla cassiera, il solito percorso in macchina, il solito parcheggio sotterraneo dove lasciare l’auto. Il fatto è che ci si fida troppo del sistema di telecamere di un parcheggio sotterraneo, si pensa che garantiscano sicurezza ma, in realtà, hanno tantissimi punti ciechi ed uno che fa il mio lavoro riesce sempre a trovarne; per questo, nonostante io, ora, sia qui non risulto in nessuno video della sorveglianza. Ho incrociato un paio di persone ma per loro ero soltanto un altro che tornava alla propria auto. Io li conosco bene i punti ciechi, alla fine ci vivo dentro, per questo io vedo arrivare Guido mentre esce dall’ascensore ma lui non mi nota nemmeno, sta chiacchierando con una tizia; come se non avesse fatto nulla a Beatrice ha già puntato un’altra preda, si capisce dai movimenti, dallo sguardo. So come fa; fa in modo, soprattutto all’inizio, di farsi trovare per caso, di esserci, di farsi riconoscere non come un estraneo ma come una figura familiare per poi essere sempre una parola davanti, una frase davanti; lui non conosce i punti ciechi, no, sente solo l’odore delle debolezze e come uno squalo per il sangue, appena ne scova una morde, strappa, dilania. Non conosce i punti ciechi Guido, per questo, quando ha ormai salutato, pronto per il prossimo round quanto prima, quando ormai ha raggiunto la sua auto, non mi sente arrivare alle sue spalle e le ultime parole che sente, prima della puntura sul collo, sono: “Ciao Guido, il capo ha detto che sei licenziato”.

13 maggio 2014

Un’alba senza nubi

Mario fissa la fiamma che, a temperatura altissima, sta eliminando pezzi della vita di Beatrice, si mette una mano in tasca e tocca un sacchetto di plastica, ne tasta il contenuto anche se sa bene cosa contiene; pensa che forse sarebbe meglio tornare a dare un’occhiata ai maiali, prima poteva essergli sfuggito qualcosa, potrebbe essere avanzato qualche pezzo del corpo di Beatrice; non ha dubbi, di solito non avanza nulla ma è sempre meglio accertarsene. Una volta fatto il controllo Mario esce nell’aria fredda e umida della notte che sta per finire, con un lieve sorriso sulla faccia si dice che, se fumasse, quello sarebbe un ottimo momento per farsi una sigaretta. Prende lo smartphone, apre skype attraverso una ben precisa applicazione e chiama l’unico numero in rubrica. Il bello della tecnologia, ha reso lo strumento più facilmente intercettabile che esistesse, il cellulare, praticamente irrintracciabile: skype utilizza un protocollo internet e quindi un flusso di dati e l’applicazione specifica fa rimbalzare questi dati in giro per il mondo fino a farne perdere le tracce, non c’è nemmeno troppo ritardo di latenza nella comunicazione. Il capo, come al solito, risponde al secondo squillo, non è mai arrivato al terzo, non ha mai anticipato al primo, in qualsiasi orario Mario lo chiami, sembra quasi che non dorma mai. Il capo è l’unica persona al mondo che mette i brividi a Mario e Mario è l’unico al mondo che mette i brividi al capo, vanno d’accordo per quello.
- Hai finito?
- Sì.
- Hai lasciato tracce?
- Potrei ritenere questa domanda offensiva, ma no, niente tracce.
- Come hai proceduto?
- Prima di cominciare ho portato via un borsone, qualche indumento e il passaporto. Poi ho fatto a pezzi il corpo nella vasca e l’ho messo nelle buste, nel trolley. Ho lavato il sangue con la candeggina ed ho ripulito le tracce che quel coglione di Guido aveva lasciato. Sono venuto qui, il corpo è stato fatto sparire dai maiali, le altre cose dall’inceneritore.
- I denti? Sai che i maiali, a volte, non li digeriscono.
- I denti li ho cavati e ce li ho in tasca in un sacchetto, li farò sparire con l’acido, con calma, nel mio laboratorio.
- Bene. Quanto tempo hai per Guido?
- Poco, in un paio di giorni qualcuno si domanderà di Beatrice, procederò già domani.
- Sai già come?
- Sì.
- Non me lo vuoi dire?
- Non lo vuoi sapere.
Mario sa che il capo, in questo momento, ha avuto un brivido come lui lo ha avuto prima, quando ha detto che avrebbe potuto offendersi.
- Mario…
- Sì?
- Mi sembra che questo, per te, sia un lavoro speciale, perché?
- Perché Guido mi ricorda qualcuno.
La telefonata si chiude così; non si aprono e non si chiudono mai con dei convenevoli. Mario guarda il cielo che schiarisce, è un’alba senza nubi.

11 maggio 2014

Fuori per lavoro


Sono stato fuori per lavoro, torno e mi ritrovo 677 post da leggere. Ora, mi capirete se vi dico che non ce la posso fare, vero? Bisogna avere una certa predisposizione, in certi momenti della vita, per prendersi dei compiti improbi. Credo che farò una specie di tabula rasa e attenderò i nuovi post ma, detto questo, vi devo un aggiornamento sul miocardo ballerino, mi pare giusto. Dopo aver scoperto, tenendomi sotto controllo 24 ore di seguito, che il cuore balla abbastanza, all'incirca il 20% del suo tempo lo passa a ballare, a quel punto o lo mandavo ad "Amici" oppure provavo a vedere se fosse una cosa con cui ci si può convivere. Vi dirò, l'opzione "Amici" l'ho anche valutata, già me lo immaginavo in sfida con il mio fegato, un grande attore drammatico, quello; poi mi sono detto che era meglio di no, che magari non avrebbe retto un cazziatone della Celentano e l'avrebbe mandata a cagare in diretta sotto un tripudio d'applausi, ma questo sarebbe stato il meno, lo avrebbero intervistato e avrebbe parlato. No, meglio di no. Ho deciso che era meglio la seconda opzione ed ho trovato un posto dove fare la prova da sforzo; mi hanno messo su una cyclette con degli elettrodi sul petto, con uno sfigmomanometro al braccio destro che mi prendeva la pressione ogni due minuti, ed ogni due minuti quella cyclette diventava sempre più dura. A quanto pare il mio miocardo quando si impegna negli sforzi, smette di ballare e quindi, alla fine, tutto bene. Ho guardato il medico che mi diceva che era tutto ok ed ho chiesto perchè, al mio cuore, piacesse tanto ballare e lui m'ha detto che era probabilmente colpa di una miocardite; devo aver fatto una faccia a punto interrogativo perché mi ha subito detto che, semplicemente, una bronchite, da piccolo, mi deve aver creato una cicatrice nel cuore che, deviando il flusso del sangue, crea la musica su cui il cuore balla. "Una cicatrice nel cuore", detto così sembra il titolo di una telenovelas brasiliana, lo so, però non ho potuto fare a meno di pensare, ancora una volta, che tutta questa storia ha un che di poetico (e anche di molto indicativo) perchè questa cicatrice ha un effetto, una deviazione, un controcanto. A quel punto il medico, dopo avermi ribadito che stavo benissimo, alla fine, mi ha detto che ero un paziente asintomatico perchè il ballare del mio cuore, alla fine, non mi infastidisce ma, se volevo, c'era anche il modo di farlo smettere di ballare: prendere una pillola ogni giorno oppure, addirittura, farsi infilare una sonda dalla gamba, fino al cuore, bruciare un po' di cellule per creare un'altra cicatrice che annulla l'effetto della prima; questo è un po' come il "chiodo schiaccia chiodo" sentimentale, alla fine. Ho guardato il medico ed ho detto di no, sapevo che avrei detto di no, non mi sottopongo ad un intervento, non inizio una terapia all life long, non elimino, non cancello: non è il mio stile.

Comunque, vi dicevo, prima, che sono stato fuori per lavoro, ormai è una trasferta all'incirca mensile, certo, è pesante, per ora dà piccoli, piccolissimi, frutti ma sento di doverla fare, finchè resisto devo continuare. Naturalmente ho cercato, come sempre, di vivere (in questo specifico caso "sopravvivere") ogni volta che torno, ed ogni volta è sempre più di quello che dovrebbe essere, nel bene e nel male; ogni volta emetto tante di quelle parole che mi stupisco sempre che quelle non dette siano, ogni volta, molte molte di più. Le parole non dette, secondo la medicina naturale, sono la causa del reflusso gastrico di cui soffro e, forse, dovrei cercare di guarire un po', non credete? Dovrei dirle quelle parole che, ancora una volta, per quieto vivere, per rispetto, per amicizia, per amore, non ho detto; ogni tanto lo faccio, tipo il post precedente, o alcuni altri che, fortunatamente, scrivo ma sono sempre troppo poche e sono sempre quelle meno importanti, perchè magari non vuoi perdere le briciole ed allora approvi, abbozzi, sorridi, ti concedi magari una piccola alzata di testa ma è solo per illuderti un po' ma la verità è che le parole vere, quelle che dovresti dire perchè sono quelle giuste, te le tieni dentro perchè tanto, dall'altro lato, da te, non si vogliono sentire, saranno sempre "sbagliate".

04 maggio 2014

La cosa divertente...

...è che fate lo stesso errore da anni, non avete mai imparato un benemerito cazzo e vi prendete la briga di pontificare e parlare a gli altri come se aveste capito tutto.

30 aprile 2014

Pagine non scritte

Dopo una consistente produzione letteraria fatta di romanzi e racconti, Francisco Quinoa Descartes smise improvvisamente di scrivere; comunicò la cosa al suo agente con un semplice biglietto spedito tramite posta ordinaria, con su scritto “Smetto”. A niente servirono i tentativi dell'agente di contattarlo perché Francisco Quinoa Descartes, insieme allo scrivere, smise anche di fare vita pubblica; non rispose più al telefono, alle lettere, alla posta elettronica. Quando il suo agente fece il tentativo di incontrarlo di persona si rifiutò di aprirgli e quando questi gli chiese, davanti alla porta chiusa, “Perché?”, una voce attutita dal legno rispose solo “Per le storie”, per poi tacere. Dopo quel tentativo estremo da parte del suo agente, Francisco Quinoa Descartes sparì del tutto; si affrettò a vendere la sua casa, svuotò i suoi conti correnti e chiuse tutte le utenze. Per un periodo se ne occuparono anche i giornali, si parlò di malattia, di pazzia, di morte; i suoi tanti lettori si chiedevano che fine avesse fatto, speravano tornasse, sognavano un nuovo libro. Come per tutte le cose della vita, con il tempo, l'interesse per la sparizione di Francisco Quinoa Descartes andò scemando; nuovi libri furono pubblicati, nuovi autori divennero famosi ma, come per tutte le cose della vita, non per tutti il tempo fa questo effetto; c'è sempre qualcuno, alla fine, che ricorda, che pensa, che spera. Vicente Ilario Dos Passos era uno di quelli per cui il tempo non cancellava nulla; era una di quelle persone per cui le foto non sono solo immagini ma vite; è pesante un'esistenza così, portandosi addosso tutte le vite importanti incrociate ma Vicente Ilario Dos Passos non ne conosceva altre e non ne avrebbe mai vissute di diverse, nemmeno potendo scegliere. Quando guardava la sua libreria con i libri di Francisco Quinoa Descartes non poteva non chiedersi dove fosse, quali altre parole avrebbe potuto scrivere; ricominciò a leggere i suoi libri partendo da quello che aveva amato di più: “Persistenza”; fu nella storia di quel villaggio tra i monti che lo ritrovò, nella storia di Donna Maite ed il suo curare con le parole ed il silenzio. Vicente Ilario Dos Passos partì senza pensarci, come si dovrebbe fare per tutte le cose importanti della vita; partì per il villaggio natale di Francisco Quinoa Descartes, quel villaggio le cui strade, sapeva, avevano ispirato quelle in cui si muoveva Donna Maite. Appena sceso nella piccola stazione del paese ebbe la sensazione di conoscere ogni angolo, ogni via, ogni pietra; girò per ore, non come un turista o qualcuno che cerca ma come uno tornato a casa dopo anni lontano. Visitò i luoghi di cui aveva letto, incontrò, nei volti, nei gesti, i personaggi del libro; incontrò anche il matto perché, come diceva il poeta, “per ogni matto c'è un villaggio”, quello che nel libro veniva chiamato Zorro, e fu proprio a lui che chiese, perché, spesso, per avere la risposta che cerchi devi chiedere ai folli, a patto di fare la domanda giusta. Infatti Vicente Ilario Dos Passos a lui chiese “Dove posso trovare Donna Maite?” e non ottenne un “Chi?!” come risposta, non ottenne un blaterare incomprensibile ma un semplice “Quella che cura con le parole ed i silenzi? Lo trovi al bar di Jesus”. Vicente Ilario Dos Passos non ebbe necessità di chiedere altro, si avviò sicuro lungo la strada alla sua destra e dopo circa 300 metri vide l'insegna del bar dove sapeva che l'avrebbe trovata e senza sorprendersi, e questo lo sorprese, guardò a colpo sicuro all'ultimo tavolino in fondo e lo trovò; Francisco Quinoa Descartes era seduto con davanti una birra, uguale a come lo ricordava dalle tante foto che aveva visto. Si sedette allo stesso tavolo come se fosse la cosa più naturale del mondo e l'uomo che si trovò davanti lo guardò come si guarda uno che aspetti ma che arriva in orario e disse “Ciao”. Vicente Ilario Dos Passos prima di tutto ordinò una birra e poi, senza nemmeno presentarsi, come sentisse la cosa inutile, chiese semplicemente “Perché sono io il primo?”. Francisco Quinoa Descartes parlò: “Sai perché si scrive? I motivi sono tanti, si scrive per se stessi, per gli altri, per tutti, per uno o una sola; per la gloria, per il denaro, per la noia; per capire, per capirsi, per centinaia di motivi diversi; le parole, però, decidono loro cosa fare. Probabilmente le mie era a te che volevano raccontare dove fossi.”, “Ma perché ha smesso di scrivere?”, Vicente Ilario Dos Passos aveva fatto la domanda per cui, alla fine, era partito; la domanda per cui era seduto a quel tavolo, davanti ad un bar di un villaggio sperduto tra i monti. Francisco Quinoa Descartes rispose come aveva fatto al suo agente da dietro una porta: “Per le storie”, ma poi continuò, “Scrivevo per raccontare, era una specie di bisogno fisico, una necessità, poi, un giorno, mi resi conto che, per quanto scrivessi, non avrei mai potuto raccontare tutte le storie possibili; per ogni pagina che scrivevo ce ne erano infinite non scritte. Cominciai a non finire le storie perché ogni finale escludeva tutti gli altri; fu allora che decisi di smettere, perché la pagina bianca racchiudeva tutte le storie possibili.”, “Anche la vita si sa solo che finisce ma non si sa mai come, forse per questo vale meno la pena di viverla? Non è il finale, sono i momenti che portano a lui a fare il racconto, a fare la vita. Le storie sono fatte di parole, non sono solo un finale ma anche, e soprattutto, quello che c'è in mezzo; non chiudiamo un libro perché non ci piace come finirà. La vita è uguale, non è quello che la conclude che la fa ma quello che avviene prima, è quello che deve farci stare bene.”. Detto questo Vicente Ilario Dos Passos bevve la sua birra, si alzò, strinse la mano di Francisco Quinoa Descartes e mise sul tavolo ciò che aveva portato con sé da casa, un taccuino vuoto ed una penna nera.