24 novembre 2013

La comprensione universale dei sentimenti

Entra che la serranda è ancora abbassata per metà, all'apertura manca un quarto d'ora. C'ha il sorriso permanente che può avere solo chi è inconsapevole della vita o chi lo è fin troppo... e non gli rimane che ridergli in faccia. Lui non lo so, esattamente, che via abbia percorso per arrivare fin qui. Quando ha cominciato a star male, com'era prima, se c'era... un prima. Io so che la mia superstrada, affollata di pensieri, ha incrociato la sua stradina di campagna. Isolata. Ci sono soltanto vie deserte, per persone come lui. E penso spesso a come le persone si incontrano/scontrano, per quei miliardi di avvenimenti casuali o combinati che l'esistenza regala ad ognuno di noi. Oggi indosso la mia divisa che fa molto massaia: lo 'znale (come si dice dalle mie parti) lo sopporto, il problema è tutto nella cuffietta, c'è un conflitto a fuoco tra lei e i miei capelli... alla fine, l'unica vittima di questa guerriglia sono io. Pane, salse, verdure, condimenti... mi faccio l'appello a mente mentre lui parla veloce di qualcosa che non riesco nemmeno lontanamente a capire. Il problema è che poi fa domande e proprio non me la sento di dare una di quelle risposte-prezzemolo, universali, che stanno bene su tutto. Io lo so, lo so che se ora avvio quel circolo vizioso del “come?!” non ne verremo più a capo. Lo so e lo dico, tutt'uno. C'è qualche terminazione interrotta tra il mio cervello e la mia lingua... Quando fai ripetere qualcosa a qualcuno, quando questo qualcuno ha già una sua particolare difficoltà a spiegarsi, bisogna prestare tanta attenzione. Ne va del rispetto. Così mi sporgo più che posso sul bancone, “appizzo le recchie”, stringo i denti e faccio gli occhi a fessura: in poche parole cerco di annullare tutti i sensi e lasciare via libera solo all'udito. Lui fa quella faccia un po' sconsolata, è la faccia di uno che nella vita ha dovuto ripetere ogni singola parola innumerevoli volte: è già così difficile comprendersi... figuriamoci se si salta la fase del capirsi... Scandisce lettere che io faccio fatica a comporre sotto forma di parole a senso compiuto, alla fine “acchiappo” al volo l'ultimo concetto e come la migliore delle codarde, mi aggancio a quello per dare una risposta appena sufficiente. Mi stupisce quest'uomo, non so dargli un'età e non saprei capire quale male lo affligge, ma so che adora la salamella nel panino, con poca poca maionese, che conosce a memoria tutte le canzoni straniere anni 80 che passano su radio capital... quando parte il video lui spara gruppo/titolo e data d'uscita. C'è un equilibrio straordinario nella natura che toglie dignità per poi restituirla sotto altre forme. E così mentre lavoro lui parla, e parla, e parla, seduto di lato al bancone... ogni tanto se la ride; capisco un 10% e nonostante la percentuale sia molto bassa, quel che sento mi va dritto nelle costate. Se il mio cuore mi volesse un po più bene indosserebbe quell'impermeabile che gli ho regalato parecchio tempo fa. Bastardo. Quando fa cenno di alzarsi per andare via mi lascia sul bancone questi foglietti, gli prometto che li leggerò quando non ci sarà folla, così da potergli dedicare la mia attenzione... fa cenno di si con la testa e saluta con questo suo accento del nord che qui, davvero, faccio fatica a capire. Me li tengo nella tasca del grembiule per tutta la sera e all'una di notte, sul tram gelido di questa città grigia, li apro e me li leggo. Due, tre, volte. Quanta tenerezza nel dolore, quanta delicatezza nella solitudine. L'impotenza è una sensazione feroce, ancora una volta mi rendo conto che prima di poter riuscire ad aiutare gli altri, sarebbe opportuno che io riuscissi ad aiutare me stessa.



Non scrivo da tanto (in realtà mi racconto un sacco di storie a mente tutti i santi giorni) e come in passato, sono pezzetti di sensazioni vissute, quelli che vengono a galla. Cambiano molte cose tutt'intorno, ma quasi mai la nostra essenza. Grazie Baol.

Questo è il post numero 600 di questo blog, non l'ho scritto io, me lo sono fatto regalare.

20 novembre 2013

Un pesante passato

La sala d’attesa è gremita come al solito, è periodo di influenze, periodo di mali di stagione e qui vengono da me anche per un semplice starnuto ma, in fondo, non mi dispiace, mi fa passare le giornate. Lui lo noto subito, è seduto alle sedie sulla destra dell’ingresso, spicca di una buona ventina di centimetri su quelli che ha ai lati. Indossa una giacca mimetica, occhiali a specchio e legge una rivista di caccia e pesca. Lo si potrebbe scambiare facilmente per uno dei tanti cacciatori di questo tranquillo paesino di montagna, venuto a farsi fare il certificato medico per il rinnovo della licenza ma capisco subito che è qui per me ma che non gli interesso come medico. Se fai parte, per anni, dell’Organizzazione, certi particolari non ti sfuggono; faccia nuova, mani curate, posizione tesa sulla sedia, come ad essere pronti allo scatto, rigonfiamento sotto la giacca: è dell’Organizzazione anche lui, ex reparti speciali, il tatuaggio sulla mano sinistra racconta quello; ne ho uno simile sulla schiena, in mezzo alle cicatrici. Mi hanno trovato; sapevo che prima o poi sarebbe successo, dall’Organizzazione non te ne puoi andare quando vuoi, non esiste la pensione, dall’Organizzazione te ne vai quando muori, da solo o con l’ausilio di altri. Quando ci sono entrato lo sapevo, ne ero consapevole, solo che la vita non è mica una linea, no, non sai mai cosa ti capita, è il suo bello. Ecco, a me era capitata una missione di troppo e, alla fine, avevo deciso di dire “basta” e mi ero finto morto, ma sapevo che con l’Organizzazione non si può fingere, non per molto. Peccato, mi piaceva fare il medico generico in questo paese, la gente mi aveva accolto bene nonostante fossi “il forestiero”, come mi chiamano qui. La sala d’aspetto risponde compatta al mio buongiorno, lui mi guarda, sembra calmo ma lievi vibrazioni delle dita denotano nervosismo, lo avranno sicuramente avvisato di chi lo mandavano ad eliminare, di cosa ero capace; all’Organizzazione lo sapevano bene, non avrebbero mandato uno sprovveduto, se mai ve ne fossero tra le loro fila. Per un attimo ripenso a quante volte mi sono trovato io al suo posto ed ho un brivido, so bene che potrebbe fare fuori tutti i presenti, anzi, sono sicuro che lo farà, è un protocollo standard: non si lasciano testimoni. Il sorriso che spunta dalla sua barba precisa mi fa capire che è uno che segue il protocollo alla lettera, perché gli piace. Mi guardo intorno, anziani, donne con bambini; un lampo, il ricordo della mia ultima missione, le mani che ho continuato a lavare per ore, dopo, fino a consumare la pelle. Sento quasi la sua adrenalina, con quella stazza gli basterebbero le mani nude con più della metà dei presenti, senza nemmeno scomporsi troppo, ma so anche che sotto quelle giacca mimetica ha un mezzo arsenale; devo fare in fretta. “Chi è il primo”, chiedo, come d’abitudine. “Io, dottore”, Marta, non l’avevo notata, troppo impegnato a controllare lui, senza insospettirlo; gestisce il rifugio per animali ai piedi della montagna, vicino al cimitero, praticamente da sola oltre a lavorare come cameriera nel bar del paese; ogni volta che la vedo, così esile, mi chiedo dove la trovi tutta l’energia per fare quello che fa. Chiacchieriamo, ogni tanto, quando vado al bar a fare colazione, mi mette serenità, una cosa che mi ero scordato pure esistesse. Ci si potrebbe innamorare, di Marta, perdersela dentro un abbraccio per farla riposare un po’. Ci ho pensato tante volte ma la vita ha quella sua ironia crudele e non sempre, non tutto, ha davvero il giusto incastro. Come potrei spiegarle i segni che ho sulla pelle? Come farle capire i segni che ho nell’anima, quelli che mi fanno urlare nel pieno della notte? Quelli che mi fanno dormire con un occhio semi aperto? Come glielo racconto tutto il mio passato? No, non si può, non tutto si può. “Marta, che sei venuta a fare? Si vede che sei sanissima! Vai a casa, và”, “Seeee, dottore, ma che dice? Mi sento a pezzi!”. So di aver fatto un errore, il mio “vai a casa” era troppo serio, lui se ne accorge, me ne sarei accorto anche io; è questo che differenzia i membri dell’Organizzazione. Non ho più tempo; lo guardo direttamente, in maniera plateale, e sorrido, come avessi un’illuminazione: “Giulio! Vecchio stronzo! Non ti ho riconosciuto subito, come stai?! Sono anni che non ci vediamo, come hai fatto a scovarmi su questi monti?!”, non devo dargli il tempo di reagire; mi rivolgo alla sala “Signori, scusatemi ma questa specie di armadio che faceva finta di non conoscermi è un caro vecchio amico, non vi dispiace se, prima di cominciare le visite vado a prendere un caffè con lui, vero?”. Ormai gli sono vicino, può essere grosso quanto gli pare ma sa benissimo che da quella distanza non è sicuro di uscirne indenne, non contro di me. La sala mormora qualcosa ma, per fortuna, sono riuscito a farmi volere abbastanza bene da farmi perdonare questo piccolo inconveniente. Guardo Marta che non sembra molto convinta, “Scusami Marta, sono subito da te, accomodati in ambulatorio intanto”. Lui fa buon viso a cattivo gioco, ha capito di aver perso l’effetto sorpresa e sta rivalutando la situazione; si alza, è enorme, ci saranno almeno quaranta chili di muscoli in più tra lui e me; anche io devo capire bene cosa fare ma adesso la cosa più importante è allontanarlo da tutta quelle gente, allontanarlo da Marta; fuori sarà solo una questione tra me e lui.

14 novembre 2013

Tris

Rope

Come fili di canapa si intrecciano, le dita, strette.
Si cercano, trovandosi nel buio, nell'inconscio, nel sonno.
Si cercano alla luce, volontariamente, oltre le convinzioni, oltre le coperture.
Si intrecciano, corda a filo doppio, le dita, legame tra la barca e il molo,
nell'abbraccio del nodo indissolubile.

Nope

Trancianti, le spalle, a volte,
nel loro volgersi al proprio orizzonte, al proprio sole.
Male interpretabili, fraintendibili, dolorose.
Negazione, a volte, solo di se stesse.
Delle paure.

Dope

Metadone, le parole, per astinenze incolmabili, leniscono a momenti,
sfamano di aria e nuvole.
Palliativo di istanti, tentativo di allungare i respiri brevi,
mozzati dalla mancanza della propria droga.
Le parole.
Inutili.

10 novembre 2013

Bookwebcrossing

Post un po' diverso dal solito questo, sì, parlerò di un libro; non che non lo abbia già fatto altre volte ma questa volta mi trovo a scrivere di un libro che mi è arrivato da una blogger ed io passerò, a mia volta, ad un altro blogger mio lettore, che vorrebbe leggerlo perchè, come recita il titolo del post, questo è un bookwebcrossing. Il libro è "La cultura si mangia!" di Bruno Arpaia e Pietro Greco; chiaramente non è un libro di cucina ma, confesso, il fegato me lo ha fatto rodere tantissimo, per tanti motivi; parla della tendenza italica, degli ultimi anni, a sottovalutare la cultura, a guardarla con occhio critico, considerarla inutile se non dannosa. Il titolo deriva dalla famosa CAZZATA detta da Tremonti: "Con la cultura non si mangia" ed il libro fa proprio quello, chiarisce, punto per punto, che quella detta da Tremonti (e appoggiata da praticamente quasi tutto l'arco costituzionale) è UNA CAZZATA: con la cultura si mangia eccome! Chiariamo che parla di cultura in tutti i suoi aspetti e sottolinea che sviluppare la cultura può solo far del bene all'economia della nostra nazione ma anche all'evoluzione stessa del nostro popolo che, vuoi o non vuoi, si troverà, continuando così, sempre più in ritardo rispetto al resto del mondo, di tutto il mondo. Chiariamo anche che non sono affatto d'accordo con chi parla di "decrescita felice", sono per una "crescita felice" fatta per l'umano, per migliorare il modo di vivere di tutti e, per favore, non cominciamo con CAZZATE come le scie chimiche, il fracking, i chip sottopelle e tutto il folklore della "lotta all'evoluzione"; la "decrescita felice" è una teoria che merita rispetto ma va esposta da chi la conosce bene. Detto questo, il libro esplica, in maniera chiara come siamo su una china discendente e che bisognerebbe fare qualcosa per invertire questa tendenza, che non significa semplicemente valorizzare il nostro patrimonio culturale ma sviluppare un patrimonio di cervelli che ci potrebbe consentire di sviluppare tutta quanta l'economia. Io, si sa, sono molto pessimista rispetto all'italiano medio, rispetto al nostro stesso futuro e gli ultimi anni non hanno fatto che peggiorare questa mia sensanzione ma, almeno, il libro mi ha fatto pensare che c'è chi ci sta provando, e questo è bello.
Da ultimo aggiungo, per campanilismo, il fatto che sia portato, come esempio positivo, tutto quanto fatto di buono in Puglia in quest'ultimo periodo.

Detto questo, vi chiedo, chi vuole leggerlo? Io lo spedirò al primo.

07 novembre 2013

Quattro rintocchi di campana

Quattro rintocchi di campana e poi il silenzio, mi siedo sul letto, non riesco a dormire; mi stavo innervosendo lì disteso, tanto, anche a stringere gli occhi non serve a niente. Penso qualcosa, una frase che mi voglio annotare, cerco un foglio, una penna e scrivo le parole che mi sono venute in mente prima che un altro pensiero, o un ricordo, le spinga via. Accendo la tv, una vecchia serie, di quando si chiamavano "sceneggiati", un giallo in bianco e nero. Siamo alla scena finale, il commissario sta per svelare chi è l'assassino, nulla, nelle facce dei presenti, fa presagire la verità. Mi viene da pensare che nemmeno gli attori la sapessero, prima che venga svelata. Non è stato il maggiordomo, no, ma l'anziana padrona di casa. cinque rintocchi di campana e poi il silenzio.

Questa cosa è vecchia, ha poco meno di due anni, scritta in un novembre sospeso, di attese e mancanze, riempito di parole scritte. Tanto e poco è cambiato da allora, la mancanza è rimasta uguale.

04 novembre 2013

Che Dio ti benedica

"Fighj mì, mi faresti aprire per favore? Tengo il peis mecher non ci posso passare, in mezzo". La signora potrebbe tranquillamente essere mia nonna, considerando che, come età, potrei essere padre, è bella che anziana. Niente, non c'è barba che tenga, né sguardo cattivo da rabbia che continua ad accumularsi dentro e che non riesco a far esplodere, né fila in banca appena sostenuta: mi guardano e mi chiedono un favore, sanno che non glielo negherò. Anche su gli autobus, sfuggo gli sguardi, altrimenti mi fregherebbero ed i questuanti li passo veloci e dico dei "NO!", fermi, decisi, inutili. "Va bene signora, adesso entro e le faccio aprire", "che Dio ti benedica, figlio mio", ancora? Vabbè che "nipote mio" suonerebbe peggio ma, poi, "che Dio mi benedica?" e lo facesse porca miseria ma mica solo Lui, io due o tre nomi che dovrebbero benedirmi ce li ho, belli, sicuri, piantati in testa. No, non mi ha preso nel giorno giusto la signora, né nella settimana giusta, forse nemmeno nel mese giusto; direi che nemmeno l'anno è quello azzeccato. Fosse stato, che so, cinque anni fa, magari a maggio, tipo di venerdì; ecco, forse sarebbe stato meglio. Che benedizione potrebbe darmi Dio? Mica mi manca niente, almeno così dicono quelli che mi conoscono; oddìo, quelli che davvero mi conoscono lo sanno che cosa mi manca, lo sanno bene; e potrebbe mai, Dio, benedirmi di una cosa che, a quanto pare, a quanto dicono i suoi scriba, non apprezza un gran che? Io non credo proprio. Benedica chi sta male senza conoscere un ministro, chi non lavora e continua a cercare. Benedica chi cerca e non chi se l'è cercata, chiunque sia. Benedica i buoni, non le merde come, invece, a quanto pare, fa; denotando quantomeno un umorismo sottile, direi inglese. La gente mi guarda rientrare e sorride, sorrido anche io, alla fine non avrei mai fatto nulla di diverso, nemmeno quando stramaledicevo anche a voce e non solo dentro, come faccio ora. In banca mi conoscono talmente bene che chiamo tutti per nome "Giampà potresti aprire alla signora? Grazie". In fondo lei che colpa c'ha? Mica è colpa sua se mi girano i coglioni. Lei c'ha solo la faccia di una, poverina, che si trova davanti una cosa che non capisce e vuole solo una mano. "Che Dio ti benedica!", e due. Magari ti ascolta signò, magari chiude pure un occhio, che tanto lo chiude pure spesso, e mi benedice un po' e magari mi addrizza il cervello, o magari mi ascolta un attimo, o parla a qualcun altro e gli spiega due o tre cose sull'illinearità della vita. Ecco signò, io ti ringrazio, ché una benedizione dal Gran Capo mica te la danno tutti i giorni, no; a me, al massimo, mi stramaledicono o, peggio, mi ignorano con una facilità che fa male. Ti ringrazio signora che potresti essere mia nonna, alla fine la benedizione di Dio mi starebbe proprio bene ma 'sta carta me la gioco come voglio, non è che poi se la tira indietro perchè non la uso per cose serie eh?! Siam chiari! Sorrido alla signora, in fondo voleva solo una gentilezza e non m'è costato niente farla, nonostante, forse, essere una merda sarebbe meglio.