Io e Arabo abbiamo qualcosa in comune, ci piace camminare; ne abbiamo parlato una volta, durante una maratona senza cronometro e senza traguardo, guardando un tramonto talmente bello che il cielo arrossiva di vergogna. Arabo con gli occhi fissi davanti a sé mi raccontava che ogni tanto allunga il giro, quando cerca di trovare una risposta o almeno di dimenticare la domanda. Si sceglie una musica per far tacere tutto il resto, mette un passo davanti all'altro e li conta, conta i passi tra lui ed un posto che ancora non sa nemmeno dove sia ma intanto si porta avanti con il lavoro così quando arriverà saprà quanti passi ci avrà messo. Io ho raccontato ad Arabo di un futuro che non so ancora di che colore dipingere e lui di facce, occhi ed errori di valutazione. Arabo ha lo sguardo spento, quel giorno mi concedeva un auricolare penzolante lontano dall'orecchio per ascoltarmi raccontare di una scelta drastica fatta valutandola al meglio pensandoci il meno possibile. Anche io guardavo davanti a me concedendogli a mia volta un solo orecchio per il suo racconto; Arabo ha centinaia di certezze e due o tre tremendi, meravigliosi dubbi fatti di gesti spontanei che non sa nemmeno da dove arrivino. Io cercavo di dare forma ad una paura che non ho mai voluto abbandonare, così da potergliene dare una rapprensentazione lì, in quella camminata istintivamente in sincrono come fossimo cavalli ad un vernissage; lui con le mani mi mimava la confusione, l'intrico sconclusionato della sua treccia di vita. Mentre l'asfalto ci scorreva sotto i piedi Arabo ha smesso di raccontare e mi ha fatto una domanda, mi ha chiesto se mi fossi mai sentito una seconda scelta, una specie di premio di consolazione. Sapevo cosa intendesse, la spiacevole sensazione di essere stati presi solo perché non c'era niente di meglio; solo non capivo perché mi avesse fatto quella domanda, Arabo aveva la faccia di chi non è mai stato premio di consolazione, aveva la faccia di chi, di solito non viene scelto affatto, ma non avrei saputo dire quale sensazione fosse in realtà peggiore. Ho chiesto spiegazioni e lui ha rallentato quasi volesse fermarsi e mi ha guardato in faccia, mi sono riflesso per un momento negli occhi spenti ed ha ricominciato a raccontare; mi ha parlato di un cuore fatto in troppo pezzi che non combaciano tra loro ed io, che mi sento come un puzzle di un quadro di Pollock fatto tutto di pezzi quadrati e lisci, non potevo che sorridere. Arabo ha risposto al mio sorriso ed ha continuato parlandomi di giorni persi e frasi che non dicono mai tutto quello che vogliono dire, come se il senso fosse più grande delle parole; di una seconda scelta che non è seconda a niente e dell'incapacità di dimostrarlo. Io allora gli ho parlato del mio vivere in un tempo perso, della mia voglia di essere altrove, non in un altro posto ma in un'altra vita, il traguardo della strada che non avevo imboccato. Mi ha chiesto dove portasse quella strada, cosa avrei voluto trovare alla fine: il perchè delle cose, la capacità di leggerle nel profondo a prescindere dalle persone ed invece mi trovavo a dover dare un senso o un indirizzo proprio a quello che le persone fanno. Avevamo passato piazze di poeti, sconosciuti e musicisti fermandoci solo per non essere investiti; lui mia ha fatto notare, ridendo, che comunque sono finito ad aver a che fare con i numeri ed io che lui era riuscito a fare tre stronzate con una scelta sola; ci siamo salutati ridendo ed ho alzato lo sguardo, il cielo aveva perso il rosa e guadagnato il nero, la nostra maratona senza cronometro e senza traguardo era finita.
ps
mi sono scordato di dirlo...anche l'esame numero 4 è andato ;)
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mi sono scordato di dirlo...anche l'esame numero 4 è andato ;)