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07 aprile 2016

Out of time

Una volta ero giovane sai? Avevo la forza di sognare perché avevo più giorni davanti che alle spalle, mi guardavo le mani ed erano ferme, adesso le guardo e sono sfocate, e tremano. Le volte che mi tremavano da giovane era per la rabbia, o per l’amore; tutte e due le cose portano passione, tutte e due le cose portano a tremare. Cerchi di fermarle, nella tua testa le vuoi fermare ma loro no, loro continuano a tremare. Come adesso, anche adesso nella mia testa le vorrei fermare ma loro no, loro fanno un po’ come gli pare. Non che la testa funzioni bene, a volte scordo le cose, scordo le date, scordo i nomi; l’unica cosa che non scordo è il tempo che è passato, la strada alle spalle; quella no, quella me la ricordo tutta, metro per metro, caduta per caduta. No, la testa non mi funziona affatto bene. C’è chi ti potrebbe dire che nemmeno da giovane funzionasse alla perfezione, che era “fallata” già allora; troppo attento a tutto, spesso intransigente, a volte rabbioso. Te l’ho detto che tremavo per la rabbia? Per la rabbia e l’amore…vedi? Mi scordo le cose; come tutti gli anziani annoio, soprattutto me stesso, perché mi inchiodo ogni giorno, alle scelte che non ho fatto, più che a quelle che ho fatto. Non credere a quelli che ti dicono “sono sereno, ho fatto una bella vita”, cazzate! Per quanto meravigliosa possa essere stata ci sarà sempre qualcosa che non è stato; il bacio che hai avuto paura di dare, il “NO!” che hai avuto paura di dire, la strada che hai avuto paura di prendere. E non credere alla storia del “senno del poi”, non conforta un cazzo quando ti ritrovi ad avere più debolezza che forza, più nebbia che memoria. Non conforta dire “ho vissuto”, e non tirarmi in ballo quelli che non hanno potuto averla una vita lunga perché già mi sento una merda di mio a lamentarmi, a non sentirmi fortunato. La verità è che la vita, per come è fatta, la capisci quando ormai è alle spalle. Una volta ero giovane, sai? Ora non lo sono  più.



Un esercizio che mi è sempre piaciuto molto è far andare una canzone e vedere che immagini mi faceva nascere in testa...

08 gennaio 2015

It's so easy...

E' così facile, adesso, convincersi di una fantomatica "supremazia" culturale del mondo occidentale, dimenticandosi tutte le guerre che ha scatenato e che scatena ancora adesso questa supremazia. E' così facile, adesso, dirsi tutti Charlie quando da noi la satira l'abbiamo calpestata fino a farla sparire. E' così facile, adesso, dirsi tutti civili quando fino a ieri abbiamo chiamato "merda" quello che aggiungeva fin anche una virgola al nostro pensiero. E' così facile, adesso, parlare dimenticandosi della regola che dice che il silenzio è d'oro ed invece unire le proprie voci (compresa la mia) al coro di parole che da ieri non fanno che riempire l'etere. E' così facile, adesso, ergersi a paladini di non si sa quale causa, giustificando tutto quello che facciamo noi, a prescindere. E' così facile, adesso, gridare ad una vendetta e non accorgersi che la cosa più spaventosa di questo atto è che fa uscire l'animale che è in tutti noi (in alcuni più, in altri meno). E' così facile ed invece l'unica cosa che dovrebbe essere così facile è innamorarsi.

30 ottobre 2014

A volte si fa teatro



"A volte si fa teatro" pensò Paolo una volta chiusa la telefonata, "si modula la voce per non tradire l'emozione; è un gioco di diaframma" e come se stesse esponendo la sua tesi ad un'aula universitaria, si mise la mano giusto al centro del tronco, appena sotto il petto. "Curioso come sia così vicino al cuore, il diaframma", sorrise percependo quella lieve accelerazione attraverso i polpastrelli. "A volte si fa teatro, sì, per rendere tutto meno complicato, per far durare di più la rappresentazione"; si passava il telefono tra le mani senza pensarci, non che scottasse, no, ma come fosse qualcosa di poco conosciuto, quasi fosse diventato comunicazione e non strumento. "Si recita per se stessi, soprattutto se si ha a che fare con chi ti conosce così bene da andare oltre l'attore, oltre l'interpretazione"; questo pensiero gli calmò i muscoli rimasti con quella percepibile tensione e si accorse che, meccanicamente, si apprestava ad uscire all'aria a godersi quella lieve accelerazione.

16 ottobre 2014

Il saldo dei debiti



Adesso tu paghi e paghi tutto e paghi per tutti. Paghi anche quello che non sai. Piove su di te e su di me ma a te sembra diverso, anche la pioggia ti sembra un diritto. Il concetto è che non te lo aspetti perché non arrivi nemmeno a crederci che avresti pagato a me; non te lo aspetti e ti colpisco che ancora mi ridi in faccia. Ti colpisco un’altra volta che nemmeno hai smesso di ridere, non hai smesso ma sei a terra, nel fango, nemesi e contrappasso. Ti rialzi o almeno cerchi, mentre dici qualcosa di cui non mi frega un cazzo, mentre ti fermo le parole con la suola delle scarpe; il fango ti è arrivato nei capelli, il sangue negli occhi ma te l’ho detto che paghi tutto e se pensi di saltarmi addosso lo hai pensato più lentamente del calcio che ti arriva nello stomaco. Piove, su di te e su di me, piove così tanto che le pozzanghere sono laghi; piove così forte che a malapena ti vedo ma è il malapena sufficiente per colpirti le braccia mentre sei carponi. Non ti dico mica nulla, no, tanto chi sono, alla fine, non è così importante e poi con la testa nella pozzanghera non sentiresti comunque. Ti tengo la testa sotto con il piede, sbatti le mani e le gambe, cerchi di tirarti su ma non ce la fai; l’acqua fa bolle dense, poi smette. E anche tu.

06 ottobre 2014

Bird gerhl


"Non so nemmeno più da dove arriva il dolore", si disse, guardandosi allo specchio, la ragazza dalle ossa cave mentre si toccava le cicatrici sulle ali. Il volto raccontava una storia sottovoce fatta di labbra piegate all'ingiù, di occhi spenti, di rughe d'espressione. "Non so nemmeno più da dove arriva il dolore, ne sono immersa dentro, forse è l'unico posto in cui so stare; quello che mi è stato assegnato". Seduta sul letto sfatto, con i piedi nudi sul pavimento freddo, la ragazza con le ossa cave si ripeteva, come ogni giorno, la storia del destino. "É l'unica ragione, deve essere così" concluse la ragazza dalle ossa cave, si asciugò una lacrima senza farsi vedere dallo specchio e mosse un passo verso la nuova giornata.

07 luglio 2014

Intermezzo



Momento "Revival", per tutti quelli che, come me, seguivano la serie tv. Secondo me questo pezzo, a ritmo, vale quanto "Happy" di Pharrell!

03 luglio 2014

Sympathy for the devil


Please allow me to introduce myself...
Ciao, sono quello che ti guarda tutte le mattine, dallo specchio, sono l'abisso in cui ti rifiuti di guardare. Sono il demone che ti striscia dentro e che rinchiudi nelle pieghe più nascoste della tua testa, sono il male, il tuo. Lo sai bene che il male è necessario, che senza buio la luce non avrebbe nessun senso di esistere ed io sono il tuo buio; sono quello che ti guida la mano quando scrivi i tuoi racconti neri, scuri come la pece; sono la tua cattiveria che affiora, come lo zucchero sui frutti lasciati essicare, come il sale nei salumi stagionati male. Il male, appunto. Sono quello che la tua coscienza tiene a bada, quello che, a volte, si porta a bere la tua coscienza. Sono il te stesso che nascondi nel labirinto delle tue paratie stagne, sono il puntello che non ti fa crollare. Ogni giorno ti guardo dallo specchio, ti vedo fare i tuoi soliti bilanci quotidiani, ingoiare alcuni rospi, partorire altri sorrisi ed intanto me la rido, mi gingillo con le parole, sai? Sì, con quelle parole che ti tieni dentro, quelle che ti offro sempre su un piatto d'argento ma che tu, stoicamente, rifiuti, non dici, ricacci da me. E rido. Sì, rido di te e me insieme, tu così pubblico, io così ben nascosto, il diavolo sta nei dettagli, no? Nel guizzo degli occhi, nella lama di sorriso, nel gesto trattenuto delle mani; io sto lì, lo sai bene, lo senti anche tu che ci sono perchè tu sei me ed io te, tu che sei bugiardo e infido così come sei fidato e chiaro. Sono quello che ti mette in testa le immagini peggiori, i pensieri che ti fanno ritorcere lo stomaco, che te lo stringono in una morsa, i pensieri che non ti fanno dormire. Sono io quello che ti porta alla bocca le parole cattive, quelle che riesci sempre a tenerti dentro, quelle che sai bene che sono la verità. Sei troppo buono, lo sai? Sei così buono che io è necessario che ci sia, sempre, ma tu mi trattieni, mi blandisci, mi concedi parole imbandite su una pagina bianca ed io mi accontento, non preoccuparti, il tuo diavolo si tiene le parole ma mi senti, vero? Sono il ruggito che ti vibra dentro, la rabbia che ti stringe la mascella, sono quelle cazzo di verità che non sbatti in faccia mai, cazzo, mai. Sono l'ultimo baluardo della tua sanità mentale, il male è quello, non è mica follia, il tuo demone ti vuole bene, il tuo demone ti regge in piedi. Tu sei quello che sorride, io quello che ghigna; tu sei quello che capisce, io quello che deride; tu sei l'empatico, io l'antipatico; io sono il tuo nocciolo duro, il nucleo centrale e sono lì che attendo, perchè prima o poi mi farai uscire, prima o poi non sorriderai più, scoppierai a ridere e tenendoti la pancia dirai tutti i "non avete capito un cazzo", riderai e gli occhi non saranno i tuoi, saranno i miei, non saranno i tuoi denti, saranno le mie zanne e non saranno le tue parole, saranno, finalmente, le mie e sarà un piacere presentarsi al mondo...
Pleased to meet you
Hope you guess my name
Non abbiate paura, è solo il mio post numero 666

15 giugno 2014

I awake



La prima cosa che gli venne in mente fu il desiderio di non essere lì, di cacciarsi in gola quella fottuta birra, alzarsi e, con il passo più svelto che potesse, raggiungere la prima fermata della metro disponibile, vedere quale treno partisse prima e saltarci su, direzione “vaffanculo”. Bevve solo un sorso, sperando buttasse giù quel nodo enorme e, magari, si portasse appresso un po' d'aria perché gli sembrava non ne entrasse più da un pezzo. Ascoltava capendo tutto e sentendo niente o sentendo tutto e capendo niente; dentro gli si sommavano “ma” come se fosse un'addizione infinita, emetteva dei rantoli che, a quanto pareva, in realtà erano parole perché ottenevano risposte di senso compiuto mentre dentro gli si affollavano pensieri di senso incompiuto. Anche il secondo pensiero fu quello di buttare giù la birra e alzarsi di scatto, come se la sedia fosse arroventata, ma temeva che gli sarebbero tremate le gambe; era sicuro gli sarebbero tremate le gambe e si era immaginato alzarsi con l'intenzione di sembrare risoluto ed invece ricadere con un tremito delle ginocchia e fermarsi con le mani sul tavolo, magari rovesciando il suo bicchiere vuoto e quello di lei, ancora pieno, ed invece di sembrare risoluto, sarebbe sembrato impacciato, imbecille ed infantile; tutte cose che, era consapevole, lo caratterizzavano più di “risoluto”. L'immagine dei bicchieri rovesciati lo bloccò, lo tenne seduto in quell'attimo di silenzio che si era formato; quel silenzio imbarazzato ma non del tipo che cerchi di baciare qualcuno e sei sicuro che quel bacio ci sarà e l'altra persona si ritrae, no, più che altro un silenzio imbarazzato di verità, di quelli fatti principalmente di non detti, di percepiti. Guardò il piatto con gli scampoli di cibo ma fu come se il suo stomaco avesse scattato l'ultima foto e si fosse chiuso del tutto il diaframma; gli venne in mente l'immagine di quei palloncini usati per formare figure, quei lunghi salsicciotti che vengono girati fino a stringersi, ecco, il suo stomaco era così in quel momento: un lungo salsicciotto con una strozzatura al centro. Ebbe quasi la nausea ed il “quasi” fu solo un'illusione, non riuscì nemmeno a capire bene cosa ci fosse nel piatto, cosa sul tavolo, cosa intorno; tutto sfocatamente indistinto, come qualcosa che sappiamo che c'è ma non ce ne frega praticamente un cazzo. Bevve un altro sorso come se fosse una medicina amara, sperando davvero fosse una medicina miracolosa che lo curasse dal male. Lei gli parlava e lui, incredibilmente, rispondeva ma le parole che tirava fuori non erano esattamente le stesse che gli venivano alla mente o, meglio, non erano le sole, come si affrettassero all'uscita a suon di spintoni e “Passo io!”, “No, io!” ed avessero la meglio, come in molte occasioni della vita, gli “Ho capito”, i “Certo”, giusto un paio di “Sì, ma” e nulla di più. Ancora una volta ebbe l'impulso di trangugiare la birra rimasta, quella che continuava incessantemente a cedere la sua freschezza all'aria intorno o a prendere il calore da essa; ancora una volta si trattenne perché quella tra la voglia di rimanere e la voglia di andare non era un'uguaglianza ma era ancora una disuguaglianza con il segno di “maggiore di” in mezzo; consapevole che con lei sarebbe sempre stato così. Le parole si fermarono un attimo, come se si fosse accorta del suo trambusto; giustificò la pausa con un sorso della sua bevanda verde. Lui si chiese il perché dell'accondiscendenza delle parole che aveva detto, del perché, nell'affannarsi all'uscita, l'avessero sempre vinta loro, con lei, e si rispose che la colpa di cui si era macchiato quasi tre anni prima aveva tolto per sempre autorevolezza al suo punto di vista, questo sarebbe sempre stato ricoperto di una luce sbagliata, di una puzza di errore. Gli ripassò in testa tutto il rosario di appunti, considerazioni, puntualizzazioni, che portava dentro e che aumentava con il tempo ma spense l'affollamento dentro la sua gola con l'ultimo sorso di birra calda; conclusero uno dei mille discorsi senza conclusioni e si salutarono con un sorriso. Strinse i denti e resistette fino alla scala della metro, sparito alla sua vista si accasciò contro il muro, come se la tensione di ogni resistenza autoimposta fosse terminata di colpo; si appoggiò alla parete respirando come in debito d'ossigeno, come dopo una corsa; avvisò chi lo attendeva che avrebbe tardato e partì per un pellegrinaggio dei loro luoghi.

31 maggio 2014

Intermezzo



Un giorno la vedrò con i miei occhi, lo so, ergersi dentro un alba rossa dai riflessi d'oro; la vedrò con i miei occhi e sarà come averla già vista dai racconti di altri occhi.
Un giorno ascolterò la voce del muezzin dal minareto richiamare i fedeli alla preghiera, lo so, la ascolterò con le mie orecchie e sarà come averla già sentita dai ricordi di altre orecchie.
Un giorno annuserò odore di spezie a mille, dai banchi dei mercati, lo so, li annuserò con il mio naso e sarà come averle già annusate, nel bruciore di altre narici.
Un giorno assaggerò il çay, seduto al tavolo di un bar, guardando la vita scorrermi intorno, lo so, lo assaggerò con la mia bocca e sarà come averlo già bevuto nel palato di un'altra bocca.
Un giorno accarezzerò uno dei tanti gatti che, amati, sostano per le sue strade, lo so, e lo farò con la mia mano e sarà come averlo accarezzato nel brivido di un'altra mano.
Un giorno, lo so.

26 febbraio 2014

Un punto poco fermo in preda alla sua rotazione



Auto, aereo, navetta, autobus, due metro, due metro, autobus, aereo, navetta, metro, treno. I muscoli che chiedono un time-out, anche quello ballerino, quello che non gli bastano le cose normali e fa uno scatto in più, ma niente, riempi il tempo di tempo pieno, di affanni, lavoro e non lavoro. Sbagli? Fai bene? Non importa, importa quella sensazione di accelerazione, dentro, che ti piglia, all'improvviso e, analizzando, sai cos'è, sai perchè, e stai seduto in mezzo alla gente e non te ne frega nulla e cerchi come fossi un tossico e poi ti pianti le unghie nei palmi delle mani, ripari paratie che, sai già, crolleranno dopo poco e riparerai poco dopo, e poi ricrolleranno ancora. Cammini e ti fermi. Ti fermi e guardi. Poi ti capita anche che il tempo passi pure in modo diverso, pieno di parole e di passi, ma con il loro ritmo, senza passi in più, senza accelerazioni e lo senti, quello, come un tempo "giusto", se un senso può avere.

15 gennaio 2014

La faccia della terra

Il teatro all'improvviso si fa silente, lui, circonfuso di luce, parla; racconta di un libro, di una Nazione, di emarginati. Poi tocca le corde della chitarra e quelle vibrano, nel silenzio, e la vibrazione si allunga, lievemente distorta ed arriva dentro, senza quasi passare per le orecchie. Arrivano le parole, rauche, graffiate e quella vibrazione, dentro, si trasforma in una mano che ti stringe lo stomaco, come la sensazione che ti dà, a volte, un amore, un'attesa, una paura. Il teatro è pieno, pieno di occhi, pieno di orecchie ma è anche vuoto; il palco una macchia scura dentro una bolla nera e ti pare di vedere una nebbia che non esiste e da quella nebbia spuntare ombre, persone, gente. Sono loro, gli emarginati, li vedi: il devoto, il reverendo, la maestra, il folle solo, l'uomo lontano, la donna libera, il telegrafista innamorato e la moglie fedifrega, la donna gravida, tutti. Li vedi, gli emarginati, e capisci che non sono così diversi da te, che brulicano di vita sghemba come te, come tutti, che sono umani, come umano sei tu. Li vedi nella loro preghiera santa e laica cercare su questa terra, ciechi, soli. Li vedi anche se non ci sono perchè le parole si fanno corpo, la musica si fa scenario e senti sempre quello stringersi nella pancia, non ti guardi nemmeno intorno, sai che non sei solo lì, che il teatro è vuoto ma tu vedi solo loro che graffiano la terra per trovare qualcosa, per trovare una risposta.

Era il 9 febbraio 2009, era il Teatro Smeraldo di Milano, ero un altro io, ero lo stesso io.

...salvami da me stesso, lasciami andare, sulla nera nera terra a cercare.

05 gennaio 2014

Costruire



Lo sterrato del bordo strada ti impolvera le scarpe mentre, con i pugni infilati nelle tasche del giubotto corto, te ne torni verso casa. E' un primo pomeriggio, assolato, tiepidamente caldo di primavera appena a gli inizi; fuori, dentro credo faccia molto freddo. Cammini senza voltarti per non lasciar sfuggire nemmeno una goccia di dolore, per trattenere tutta la rabbia. Cammini senza voltarti, con la testa altra e i muscoli rigidi, il culo dritto e le spalle ferme; senza regalarti nemmeno una sosta, nemmeno un'esitazione, sempre un passo, saldo, davanti all'altro. Il beneficio del dubbio non fa parte di quel selciato, di quella polvere, di quelle spalle, consapevole che, tanto, verrà concesso sempre alle persone sbagliate, sempre nel momento meno adatto. Cammini senza voltarti e non vedi quell'auto che ha atteso un tempo infinito, ferma allo stop, prima di ripartire; il tempo infinito di veder sparire quelle spalle dietro una curva.

26 ottobre 2013

Intermezzo


Le perle cadono sul pavimento, fanno un rumore di pioggia fredda quando comincia a cadere. Il gatto scappa di là come se non ne volesse sapere nulla, lui. Sempre il solito. La luce dalla finestra muore piano tanto per non far scordare subito che era giorno fino a pochi attimi fa; non che importi, non ora, non in questo momento, in questa stanza piena di foto e libri. Le perle cadono sul pavimento perché non sai mai quando si spezza il filo che le tiene, magari ci giochi un attimo e poi perdi tempo a cercarle, loro. Rotolano ovunque le perle che cadono sul pavimento, un po' è bello il rumore che fanno, quel ticchettio sempre più ravvicinato che, alla fine, si trasforma nel fruscio della rotolata.
Tic



Tic


Tic

Tic
Tic
TicTicTicTic
Rrrrrrrrr....

Fino a fermarsi, loro, le perle, ché noi non ci fermiamo davanti al rumore, non adesso che la luce sta morendo per rinascere domani, non in questo momento che ha spaventato anche il gatto, non ora che le vita, sì, la vita, sta aprendo il sipario.


08 settembre 2013

Il prestigiatore

Sono qui, seduto in un angolo ad un tavolino sporco; entrando non mi si vede, mi mimetizzo con la tappezzeria macchiata, abbiamo le stesse chiazze. Sono di spalle, faccio spettacoli di magia per il muro, faccio apparire del pessimo whisky in un bicchiere, opaco di mille lavaggi, e lo faccio sparire. Sono bravo, un paio di volte mi è sembrato che il muro applaudisse. Il gioco mi viene bene, lo faccio da tanto tempo, mi alleno tutti i giorni, l'allenamento è importante, è quello che differenzia i professionisti dai principianti. Una volta era diverso, mi sedevo rivolto alla porta, come se aspettassi di vedere entrare qualcuno, da un momento all'altro. Aspettavo e bevevo, poi ho smesso. Di aspettare.


17 agosto 2013

Guardastelle


Il cielo ha questa capacità assurda che, quando si scolora, te lo guardi ed è come se il tempo avesse un altro battito. Tu stai lì, fermo ad osservare, ed è un attimo che il cielo è azzurro ed il sole giallo e poi tutto cambia e si cominciano a vedere altre sfumature ed ha una sua lentezza particolare, un suo tempo; guardi il cielo cambiare colore e capisci i gatti, alla fine, capisci il loro star fermi, la loro vibrazione. Poi le vedi apparire, quasi ti stupisci, anche se sai che sono lì da sempre; prima le più luminose nell'indaco profondo e poi, una alla volta, a trapuntare il cielo, piccoli punti di luce nel manto nero. C'è chi diceva fossero i buchi da cui entrava la luce dell'infinito e fa pensare che quella luce lì sia partita millenni fa e che, probabilmente, sia solo l'immagine di una stella che non esiste più. Se intorno è abbastanza scuro ti ci puoi perdere, in quel manto di luci dentro al nero, e disegnare tutto quello che vuoi e, forse, è quello che vuoi, perderti, perchè solo così si può trovare una strada.

02 agosto 2013

Moneygrabber

Il racconto è un po' crudo, vi avviso.



“Alzati”, la mia voce lo va a riprendere dentro gli anfratti remoti dell’incoscienza in cui il sonno lo ha portato. Non mi riconosce subito, no, la consapevolezza si fa strada, a fatica, dentro le ombre di qualche sogno; poi vede i miei occhi e, successivamente, la canna della pistola; delle due cose non credo sia la seconda a spaventarlo di più. “Alzati”, ripeto, questa volta è più pronto e dopo essersi messo a sedere sul letto, fa per alzarsi; lo colpisco alla bocca con il calcio della pistola, lo colpisco bene anche se c’è poca luce; il labbro si spacca e saltano via un incisivo ed un canino, forse un altro paio di denti li ingoia. Dalle labbra esce sempre molto sangue, una grossa macchia amaranto si allarga sulla sua maglietta bianca, ricade seduto sul letto. “Alzati”, gli dico, di nuovo; è titubante, teme un altro colpo ma questa volta lo faccio alzare. Lo spingo verso la cucina, “Perché?”, mi chiede, “Lo sai”, gli rispondo; inizia a farfugliare qualcosa, sembra stia pregando ma non si rivolge a Dio, si rivolge a me; ha capito cosa sta per accadere, cosa sto per fargli; comincia anche a piangere un po’. Lo faccio sedere al tavolo della cucina, sotto la luce che pende dal soffitto, bianca. Gli lego le mani dietro la schiena e i piedi nudi alle gambe della sedia; ho portato con me solo la corda per legarlo, il resto lo trovo lì, siamo in una cucina e, si sa, la cucina è un luogo pericoloso. Non gli ho tappato la bocca, no, devo sentirlo urlare perché non devo concedergli nulla, nemmeno il mugugno; non sentirà nessuno, ha voluto isolarsi dal mondo, lo stronzo, come se ne avesse schifo, come se non dovesse essere il contrario ed essere il mondo ad aver schifo di lui. Mi guarda, il labbro spaccato, gli occhi pieni di lacrime, la maglia sporca di sangue, “Pietà”, mi chiede, nemmeno troppo convinto, in realtà, sa che non gliene darò mai, non ne ha mai avuta quando era il suo turno di darla e adesso non ha crediti da scontare ma solo debiti da pagare; lo guardo ridendo mentre armeggio col cassetto degli utensili da cucina, “Ma perché, sai anche che cos’è la pietà? Me la vorresti spiegare? Io devo averla persa giusto qualche mese fa, era gennaio, ti ricorda qualcosa?”, e gli sparo al ginocchio destro. L’urlo mi entra direttamente nelle fibre, non so nemmeno se passa per le orecchie per quanto lo sento fisicamente. Accendo il gas, “Che fai?!”, mi chiede tra lacrime e dolore, “Mi faccio un caffè, mi sta venendo sonno”, piange, gli infilo uno spiedo incandescente di calore rosso, nel fegato; batte i denti dal dolore ed io spiego “Sai perché l’ho arroventato? Perché così cauterizza i vasi e non muori dissanguato, mi rovineresti il divertimento” e ne infilo un altro, in un polmone, gli manca il fiato. Ero un uomo ed in questo momento sono un mostro, ero un uomo e questa merda che comincia a somigliare a San Sebastiano m’ha dato questa trasformazione, me l’ha fatta pagare cara ma adesso è qui; forse c’era già da prima, non siamo tutti qualcosa, in potenza? Non abbiamo tutti un limite? Una tensione di rottura? Il punto di frammentazione? Chiamiamolo come vogliamo ma succede che si supera e si diventa quello che sono io, adesso, mentre gli disarticolo una clavicola con un batticarne. Ormai quello che grida e quello che sputa non mi interessano nemmeno, mi laverò dopo, mi farò una doccia, adesso sono troppo impegnato a controllare se uno schiaccianoci riesce a fratturare tre dita insieme. Sì, ci riesce. Lo guardo, è quasi svenuto dal dolore, ansima, e respira a fatica, uno spiedo in un polmone, un coltello da carne nell’altro non lo aiutano; gli vado vicino, gli tiro indietro la testa e gli chiedo “Vuoi morire?”, credo mi risponda di “Sì”, non ne sono nemmeno troppo sicuro, “Va bene, ma solo perché ormai mi sono rotto il cazzo di te” e gli squarcio la gola con il coltello per il pane, con tanta di quella forza che lo scheggio sulla spina dorsale, vertebre cervicali. Sul tavolo lascio un biglietto: 'Non ringraziatemi, è stato un piacere'.

Questo racconto lo avevo promesso e lo avevo anche iniziato l'undici novembre 2011 ed allora nessuno aveva indovinato di cosa avrebbe parlato; eppure non sono stato il primo a collegare questa canzone ad una cosa simile, è stata colonna sonora di un episodio di Criminal Minds. Lo so, ci metto tempo ma le promesse le mantengo, tutte.

31 luglio 2013

Home


Il tempo sulle scale è tempo dedicato ai pensieri, fai mente locale sulle cose mentre, infilando la mano in tasca, cerchi con la punta delle dita le chiavi di casa; nello spazio del corridoio ti sei quasi dato tutte le risposte e infilando la chiave nella serratura, prendendo inconsapevolmente la mira, già non te ne frega più un cazzo. Appoggi la borsa e ti togli le scarpe, riprendi confidenza con il pavimento, lo gratti un po' con le dita dei piedi, quasi fosse un gatto; molli le chiavi nel posacenere e ti slacci la cravatta, senti il respiro che un po' si allunga e lanci la giacca sulla poltrona. Apri il frigo e cacci fuori una birra mentre, con l'altra mano, hai ritrovato un apribottiglie vintage dentro un cassetto. Con gesto quasi meccanico apri la birra godendoti il fresco della bottiglia ed il piacevole sibilo dell'aria, intrappolata nel collo, che si libera nello stappo. Apri la finestra sulla sera e t'affacci, piedi nudi e birra in mano; mentre dai un senso alla birra che hai stappato, cerchi di ricordare le risposte che t'erano venute e le domande a cui corrispondono, non fai a tempo a farle combaciare che la birra è finita, regalandoti un sospiro di goduria colto ad occhi chiusi e collo esteso e ti dici che, alla fine, se le risposte sono giuste, che arrivino quando servono.

19 luglio 2013

Quella cosa che chiami vita

L'erba del lungofiume è verde delle piogge invernali appena finite, brilla nel primo sole, caldo, di aprile ed urla alla primavera di essere pronta; l'acqua scorre veloce sui sassi lisci, grigi e marroni, ed accompagna le pinnate decise di alcuni pesci. Tutto intorno le montagne guardano, come a controllare, lo svolgimento solito delle cose; la ragazza dai capelli sottili cammina svelta con le mani in tasca, fingendo un broncio, mascherando un sorriso; ha falcate sicure di chi conosce la strada ed evita l'erba più alta senza schiacciarla. Il ragazzo si affretta incerto, meno sicuro di dove saranno i suoi piedi al passo successivo ma, grazie a leve più lunghe, con qualche passo veloce ha colmato il distacco. Finge un fiatone più grosso di quello che ha e la ferma cingendole le spalle, lei cerca di trattenere il broncio finto che il sorriso sta spingendo via con forza, lui riesce solo a dire “Hey...”, piano, quasi accompagnando un sospiro; stringe un po' di più le braccia e l'avvicina a sé, affonda la faccia nei capelli sottili e le bacia, lieve, il retro del collo. Un uomo in tenuta da jogging li incrocia e sorpassa sorridendo a quella vista, i suoi passi sono l'unico rumore che supera il fruscio del vento; in alto due rondini si incrociano in volo e macchiano, per un attimo, il sole.

08 luglio 2013

Tornato

E' che ce ne sarebbero di parole, tante, su ogni volta che torno a Milano, che ogni volta è uguale, che ogni volta è diversa. Ho rispettato quello che avevo scritto, viverla libero da certi pesi che comunque ci sono, sono dentro, non se ne andranno mai ma se li metti nel loro compartimento stagno, dopo che sono tracimati per un sacco di tempo, beh, forse riesci ad essere quello che dovresti essere, te stesso. Sono tornato, come ogni volta, più ricco; no, non di soldi (magari) ma più ricco di vita, di immagini, di rabbia buona, di fame. Sono tornato ed ogni tanto penso e sorrido e per questa cosa ringrazio, ma tanto. Scriverò ancora, ne ho voglia, ne ho rabbia, scriverò ancora. Sono tornato.


30 maggio 2013

Fever


E ti ritrovi così, appoggiato al bancone di un locale fumoso con in mano un whisky d’annata, dannato anche tu come un po’ tutti, lì dentro. Lei è sul palco, inguainata in un abito nero che calza come un guanto, un guanto elegante sulle sue curve. C’è anche lui, il nuovo lui, quello con la faccia per bene e le parole per male, seduto in prima fila a vantarsi del trofeo. Quell’abito lì glielo hai regalato tu, sembra quasi che lo sapesse che oggi saresti stato lì e lo ha messo a posta, come un regalo, come un affronto. Ancora ti ricordi quando quell’abito lo sfilavi, piano, con la lentezza che si riserva alla scoperta dei capolavori o ad una buona mano a poker; oppure lo toglievi dalla strada tra te e lei con la bramosia e la furia del temporale estivo che si abbatte sulla terra arida. Fai girare il whisky nel bicchiere pensando che, adesso, è quel lui a sfilare il vestito ma, lo vedi, non ha nemmeno le mani adatte per farlo. Il grillo parlante ti direbbe che sei stati tu a non voler stare seduto lì, in prima fila ma il grillo parlante s’è fatto insegnare la volontà dai libri Harmony, tu dalla realtà dei fatti. Si spengono anche le poche luci rimaste, adesso lei è al centro dell’unica luce e dell’attenzione di tutti, non solo della tua; il pezzo parte come sempre, due colpi di Tom Tom e poi lo scorrere di dita sul contrabbasso.

Never know how much I love you
Never know how much I care
When you put your arms around me
I get a fever that's so hard to bear

Già, mica l’ha mai saputo quanto l’amavi e quanto ti importasse, quanta febbre ti mettessero i suoi abbracci, perché, a volte, viene più facile il silenzio di tante parole. Ti sei girato di tre quarti sullo sgabello scomodo e ti risenti la febbre, non ti è mai passata.

You give me fever
When you kiss me
Fever when you hold me tight
Fever
In the morning Fever all through the night

Lei dà la febbre, sì, al mattino e per tutta la notte, sempre. Le spazzole strisciano sulla pelle del rullante come le tue dita leggevano la sua, quando il tempo si fermava. Nella sala non c’è altro suono che non provenga dal palco, nemmeno il ghiaccio nei bicchieri fa rumore; anche se è buio sai che tutti gli sguardi sono per lei, persi nei riflessi del vestito, nella scollatura in cui le tue preoccupazioni sparivano cullandosi nel suo respiro.

Everybody's got the fever
That is something you all know
Fever isn't such a new thing
Fever started long ago

In questo momento tutti hanno la febbre, sì, anche le donne che, sedute ai tavoli, fissano i suoi occhi, il sorriso impreciso che appare tra un battere ed un levare, ed hanno i brividi. Lei guarda dritto davanti a sé, sai che ti sta guardando, senza nemmeno sapere se ti ha visto. Ti accendi una sigaretta e ti aggiungi alle decine di braci che, nel buio, appaiono e scompaiono, bruciando e avvampando velocemente, come chi le fuma.

Thou givest fever
When we kisseth
Fever with thy flaming youth
Fever, I'm a fire
Fever, yay, I burn forsooth

Le sue labbra cantano dei baci e tu te li ricordi, facendo finta di esserteli scordati; quando, con il pollice, carezzavi la piccola cicatrice sotto il labbro o vi ritrovavate mischiati e sudati. Prendi un altro whisky appoggiando il bicchiere vuoto sul bancone e facendo un semplice gesto al barista. Il pezzo è arrangiato diversamente dal solito, più lento, più sensuale; canta tirando le strofe e regalando ottave basse che vibrano dentro lo stomaco. La sua voce non scende su chi sta ascoltando ma risale dal basso e si attorciglia attorno al corpo, sinuosa, come il suo corpo quando inarcava la schiena e piantava i suoi occhi nei tuoi, e si mordeva piano un labbro, e ti mordeva piano un labbro. Chiudi un attimo gli occhi e ti tieni al bancone, ti mantieni al bicchiere.

Now you've listened to my story,
Here's the point that I have made
Chicks were born to give you fever
Be it farenheit or centigrade

Ha ragione e lo sai, le donne sono fatte per far venire la febbre e lei, lì, è l’Ebola, la Spagnola, un’epidemia. Tra quei tavoli hanno tutti la febbre, il sudore imperla le fronti, i pensieri impestano la testa e lei, con misurata gestualità, tiene la temperatura di tutti. Lui, quello in prima fila, guarda solo un pezzo di carne, e ride.

They give you fever
When you kiss them
Fever if you live, you learn
Fever, till you sizzle
What a lovely way to burn

E’ stata e sarà sempre la tua pandemia virale, lo capisci mentre guardi il fondo del terzo bicchiere di whisky e sei più lucido di quando sei entrato. Avvampi ma è un meraviglioso modo di bruciare, sì. La sua voce si abbassa piano di volume…

What a lovely way to burn

…sparisce l’altro lui…

What a lovely way to burn

…sparisce la gente…

What a lovely way to burn

…adesso canta per te soltanto e dai l’ultima vampata ma…

What a lovely way to burn!


Erano anni che volevo scrivere un pezzo su questa meravigliosa canzone e finalmente il mio cervello ha creato la storia giusta.