17 agosto 2013

Guardastelle


Il cielo ha questa capacità assurda che, quando si scolora, te lo guardi ed è come se il tempo avesse un altro battito. Tu stai lì, fermo ad osservare, ed è un attimo che il cielo è azzurro ed il sole giallo e poi tutto cambia e si cominciano a vedere altre sfumature ed ha una sua lentezza particolare, un suo tempo; guardi il cielo cambiare colore e capisci i gatti, alla fine, capisci il loro star fermi, la loro vibrazione. Poi le vedi apparire, quasi ti stupisci, anche se sai che sono lì da sempre; prima le più luminose nell'indaco profondo e poi, una alla volta, a trapuntare il cielo, piccoli punti di luce nel manto nero. C'è chi diceva fossero i buchi da cui entrava la luce dell'infinito e fa pensare che quella luce lì sia partita millenni fa e che, probabilmente, sia solo l'immagine di una stella che non esiste più. Se intorno è abbastanza scuro ti ci puoi perdere, in quel manto di luci dentro al nero, e disegnare tutto quello che vuoi e, forse, è quello che vuoi, perderti, perchè solo così si può trovare una strada.

11 agosto 2013

Periodo rarefatto

Ascolto De Andrè, De Andrè che riscriveva Masters; ne sento dentro la potenza, in ogni frase ed in ogni parola e ritrovo la voglia di parole anche io. Ritrovo la voglia di scrivere storie, di inventare mondi, di raccontare vite e ritrovo la voglia anche di non dire nulla, di lasciare che siano le parole degli altri a dire qualcosa, che siano anche i silenzi a raccontare. Ritrovo uno spirito uguale e diverso ed è bello, il voler sentire le parole formarsi in testa ed il guardare quello che c'è intorno anche stando zitto.

08 agosto 2013

Un piccolo brivido estivo…

La finestra è aperta sul buio, non è un buio pesto, è rischiarato appena dalla luce tremula di una candela. Un ventilatore appoggiato sul pavimento si muove da sinistra verso destra e torna indietro e, ad ogni passaggio, fa ondeggiare la fiamma della candela e ballare le ombre lunghe e scure, sul muro. Seduta sul divano una ragazza, dai lineamenti sembrerebbe russa, o ucraina; cerca, pare, di trovare refrigerio nel buio e nell’aria accelerata dal ventilatore; è immobile, assorta in qualche pensiero profondo, la lama di fuoco si riflette nei suoi occhiali, una piccola goccia di sudore le imperla la fronte. Ha in mano un bicchiere, un calice, per essere precisi, con dentro quello che sembra vino bianco fermo, ghiacciato, si direbbe, vista la patina formata sul bicchiere fino a dove c’è liquido. C’è silenzio, un silenzio quasi irreale che, all’improvviso viene interrotto da una voce querula che chiama da un buio più profondo, “Ludimilla… Ludmilla…”. La ragazza sembra trasalire, il suo sguardo chiaro, profondo, tradisce le sue emozioni, anche la mano non è più ferma. Beve un sorso dal bicchiere, lungo, si alza e si immerge in quel buio profondo.

Chissà come continua...

06 agosto 2013

Carme 85

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Catullo

E poi ci sono quelli che mi stanno solo sul cazzo, so' tanti eh.

02 agosto 2013

Moneygrabber

Il racconto è un po' crudo, vi avviso.



“Alzati”, la mia voce lo va a riprendere dentro gli anfratti remoti dell’incoscienza in cui il sonno lo ha portato. Non mi riconosce subito, no, la consapevolezza si fa strada, a fatica, dentro le ombre di qualche sogno; poi vede i miei occhi e, successivamente, la canna della pistola; delle due cose non credo sia la seconda a spaventarlo di più. “Alzati”, ripeto, questa volta è più pronto e dopo essersi messo a sedere sul letto, fa per alzarsi; lo colpisco alla bocca con il calcio della pistola, lo colpisco bene anche se c’è poca luce; il labbro si spacca e saltano via un incisivo ed un canino, forse un altro paio di denti li ingoia. Dalle labbra esce sempre molto sangue, una grossa macchia amaranto si allarga sulla sua maglietta bianca, ricade seduto sul letto. “Alzati”, gli dico, di nuovo; è titubante, teme un altro colpo ma questa volta lo faccio alzare. Lo spingo verso la cucina, “Perché?”, mi chiede, “Lo sai”, gli rispondo; inizia a farfugliare qualcosa, sembra stia pregando ma non si rivolge a Dio, si rivolge a me; ha capito cosa sta per accadere, cosa sto per fargli; comincia anche a piangere un po’. Lo faccio sedere al tavolo della cucina, sotto la luce che pende dal soffitto, bianca. Gli lego le mani dietro la schiena e i piedi nudi alle gambe della sedia; ho portato con me solo la corda per legarlo, il resto lo trovo lì, siamo in una cucina e, si sa, la cucina è un luogo pericoloso. Non gli ho tappato la bocca, no, devo sentirlo urlare perché non devo concedergli nulla, nemmeno il mugugno; non sentirà nessuno, ha voluto isolarsi dal mondo, lo stronzo, come se ne avesse schifo, come se non dovesse essere il contrario ed essere il mondo ad aver schifo di lui. Mi guarda, il labbro spaccato, gli occhi pieni di lacrime, la maglia sporca di sangue, “Pietà”, mi chiede, nemmeno troppo convinto, in realtà, sa che non gliene darò mai, non ne ha mai avuta quando era il suo turno di darla e adesso non ha crediti da scontare ma solo debiti da pagare; lo guardo ridendo mentre armeggio col cassetto degli utensili da cucina, “Ma perché, sai anche che cos’è la pietà? Me la vorresti spiegare? Io devo averla persa giusto qualche mese fa, era gennaio, ti ricorda qualcosa?”, e gli sparo al ginocchio destro. L’urlo mi entra direttamente nelle fibre, non so nemmeno se passa per le orecchie per quanto lo sento fisicamente. Accendo il gas, “Che fai?!”, mi chiede tra lacrime e dolore, “Mi faccio un caffè, mi sta venendo sonno”, piange, gli infilo uno spiedo incandescente di calore rosso, nel fegato; batte i denti dal dolore ed io spiego “Sai perché l’ho arroventato? Perché così cauterizza i vasi e non muori dissanguato, mi rovineresti il divertimento” e ne infilo un altro, in un polmone, gli manca il fiato. Ero un uomo ed in questo momento sono un mostro, ero un uomo e questa merda che comincia a somigliare a San Sebastiano m’ha dato questa trasformazione, me l’ha fatta pagare cara ma adesso è qui; forse c’era già da prima, non siamo tutti qualcosa, in potenza? Non abbiamo tutti un limite? Una tensione di rottura? Il punto di frammentazione? Chiamiamolo come vogliamo ma succede che si supera e si diventa quello che sono io, adesso, mentre gli disarticolo una clavicola con un batticarne. Ormai quello che grida e quello che sputa non mi interessano nemmeno, mi laverò dopo, mi farò una doccia, adesso sono troppo impegnato a controllare se uno schiaccianoci riesce a fratturare tre dita insieme. Sì, ci riesce. Lo guardo, è quasi svenuto dal dolore, ansima, e respira a fatica, uno spiedo in un polmone, un coltello da carne nell’altro non lo aiutano; gli vado vicino, gli tiro indietro la testa e gli chiedo “Vuoi morire?”, credo mi risponda di “Sì”, non ne sono nemmeno troppo sicuro, “Va bene, ma solo perché ormai mi sono rotto il cazzo di te” e gli squarcio la gola con il coltello per il pane, con tanta di quella forza che lo scheggio sulla spina dorsale, vertebre cervicali. Sul tavolo lascio un biglietto: 'Non ringraziatemi, è stato un piacere'.

Questo racconto lo avevo promesso e lo avevo anche iniziato l'undici novembre 2011 ed allora nessuno aveva indovinato di cosa avrebbe parlato; eppure non sono stato il primo a collegare questa canzone ad una cosa simile, è stata colonna sonora di un episodio di Criminal Minds. Lo so, ci metto tempo ma le promesse le mantengo, tutte.