29 novembre 2009

Ego, ipertrofico, bloggare

Il post dalle tre parole di Porzione


costipazione

- Ego te absolvo in nomine… -
Ormai non lo ascolto più, ho raggiunto lo scopo di lavare la mia coscienza e darle anche una bella inamidata perché, secondo me dopo non c’è niente, ma metti che mi sbaglio? Almeno così mi sono guadagnato la mia porzione di paradiso.
- Figliolo... Figliolo mi hai sentito? -
- Eh?! -
- Ho detto che puoi andare. -
- Grazie, non avevo sendido, guesto raffeddore mi sfinga, mi sendo duddo il naso bloggado ed ho un gerghio alla desda ghe non si immagina, mi berdoni. -
- Di nuovo? L’ho appena fatto. -
Pure il prete cabarettista doveva capitarmi.
- Hahahahahaha, simbadigo. Arrivederla badre. -
- E ricordati, ci vuole forza di volontà! -
La penso esattamente come lui, infatti sto uscendo dalla chiesa con la ferrea volontà di fare almeno un peccato mortale e due veniale entro la fine del telegiornale delle venti.
- Michele! -
Oh Signore, la Scassi! Ogni volta che la incontro non posso che cogliere l’infinita saggezza degli antichi romani che affermavano “nomen omen”, se mi attacca bottone mi scasserà, appunto, peggio di uno di quei film iraniani sottotitolati che vado a vedere per rimorchiare le intellettuali.
- Salve signora, gome sda? -
- Eeeeeh…. -
Eccola che inizia, ha lanciato il grido di battaglia.
- Come vuoi che sto? Son vecchia, mi fanno male le giunture, le ossa, sarà tutta questa umidità; pensa che stamattina non riuscivo nemmeno ad alzarmi da quanto mi faceva male la schiena, già pensavo che non sarei venuta in chiesa, come faccio tutti i giorni, poi ho fatto un sforzo ed eccomi qui. -
Che culo che ho avuto.
- Gabisgo ma sdia addenda, si riguradi. -
- Che caro che sei, Michele, l’ho sempre detto anche a mia nipote Genoveffa, “Michele è proprio un bravo ragazzo, sarei proprio contenta se vi frequentaste”. -
Dio me ne scampi! Sarebbe la volta che mi converto davvero; Genoveffa è così brutta che quando va in pescheria le cozze si aprono per manifesta inferiorità.
- Signora, mi lusinga, è drobbo buona. -
- Ma è la verità! Guarda il mio Fuffi come ti fa le feste. -
Feste un corno, mi sta ringhiando contro mostrandomi anche le gengive.
- Ghe garo… -
- Sì, il mio cucciolino ti adora -
“cucciolino” lo chiama; è un chihuahua ma sembra un cinghiale ipertrofico, una specie di incrocio tra una nutria geneticamente modificata ed un dobermann incazzato. Se potesse staccarmi una mano a morsi lo farebbe molto lentamente per godersi la mia sofferenza.
- Ora devo andare signora, mi sgusi ma non mi sendo moldo bene -
- Eh, me ne sono accorta, avrai preso freddo, ti sarai scoperto troppo… -
Ma che fa?! Allude?! Oddio che spettacolo indecente, ‘ste sottospecie di prugna secca m’ha fatto anche l’occhiolino!
- Signora, ma gosa dige?! Ieri ho breso dudda la bioggia dornando dal lavoro. -
- Povero Michele, se vuoi ti mando Genoveffa, è un’ottima infermiera. -
Sì, così oltre a starnuti e febbre aggiungiamo anche il vomito, ai sintomi.
- No guardi, sono moldo infeddivo e l’ultima gosa ghe voglio è ghe sua nibode brenda gualgosa da me. -
- Che peccato… -
Giuro che la prossima volta che mi viene voglia di lavarmi l’anima le do due gettoni, che se ne andasse da sola alla lavanderia automatica.


Visto che già so che Porzione, peggio della Scassi, avrà sicuramente da ridire sull’utilizzo del verbo questa volta ci metto un altro raccontino.

Seduta di autoanalisi

Tutto è cominciato per gioco, di solito va sempre così, invece di chiedersi “perché?”, ci si chiede “perché no?” e si comincia. Mi sono affacciato alla rete come fosse una piazza e forse lo è, la piazza più grande che ci sia, ed ho osservato. Poi è arrivato il blog, mettere le proprie parole sparse in frasi, anche piccole, di senso incompiuto, come fossero enigmistici pensieri da completare e stare a vedere cosa succede. Non posso non confessarlo, bloggare è stato come pompare benzina sul fuoco, il mio ego, già a malapena contenuto in un corpo tutto sommato abbondante, è cresciuto come un bubbone ipertrofico fino a straripare, ad esondare, sì, io “esondo” come mi ha detto un altro blogger, lui sì, bello e bravo, in risposta ad un mio commento. Esondo su tutti gli altri lasciando la firma come faceva zorro, lascio la mia “P” dopo la mia chiosa, cercando di lasciare il seme della zizzania solo per vedere l’effetto che fa. In fondo sono buono, buono e sagace, è la tastiera a portare le mie dita su parole che non vorrei ed a pigiare “pubblica”. Adesso che ho raggiunto il peggio del “non – essere” internettiano, adesso che non spreco nemmeno più parole perché “faccialibro” ha gli status ed i “mi piace, non mi piace”, solo adesso, guardandomi indietro tra una focaccina con lo strutto ed uno strudel di ciccioli alla carbonara, capisco che non posso più andare avanti così ed ho capito che devo chiedere aiuto. Mi chiamo M. e sono un blogger.

26 novembre 2009

Sto tornando...



Sono in Romagna, fermo per la notte, domani torno a casa e prometto che ricomincio a postare i "raccontini ispirati" altrimenti Porzione chi lo sente!
Vi abbraccio tutti

20 novembre 2009

Eh, quando arriva arriva....

Insomma, io in fondo l'ho sempre saputo no? Lo sapevate anche voi e gli altri e pure gli essi, massì che, in fondo, quando arriva arriva ed allora ci si toglie il dente e poi? Poi si fanno gli sciacqui col colluttorio alla menta inviperita, quella che dà il pizzicorino e poi "sputi qui", "NON SUL PAVIMENTO! QUI!!!" che, hai voglia ad averci mira se mi imbottisci di analgesico ed anestetico le gengive di sù ed il dente lo togli da quelle di giù. Non divaghiamo, dicevo che quando arriva arriva, massì che lo sapete, uffaaaaa, il traguardo sì; ti fai chilometri e chilometri e chilometri e chilometri, ma tanti eh, e poi, finalmente intravedi lo striscione con su scritto...PARTENZA...cazzo! Non fai in tempo a finire che devi ripartire e di nuovo chilometri e chilometri e chilometri e chilometri. Ma voi ci avete mai pensato? Non ai chilometri, al fatto che se ripeti una parola per un sacco di volte è come se non riuscissi più a collegarla al suo significato? Fine fine fine fine fine, no, quella rimane uguale ma è l'eccezione che conferma la regola. Uffa, continuate a farmi divagare ed io non voglio divagare il passato, in fondo è passato no? E' la vita girata nel passino del tempo, quello con pomello giallo, quello che mamma usava per schiacciare le patate e farci le crocchette, siamo crocchette questa è la verità: croccanti ed abbrustoliti fuori, morbidi, bollenti e filanti dentro, non si sfugge, alcuni al massino sono supplì. Ciò non toglie che quando arriva arriva ed è arrivato, il fatidico ultimo giorno e le ultime ore; di lavoro eh! Di lavoro milanese eh! Di lavoro milanese continuo e reiterato per giorni eh! Che con voi bisogna essere precisi che subito pensate che uno finisce altro. Non ho altro da finire ora se non le birre in frigo, magari mentre chiudo le scatole con mia mamma che me le romperà perchè qualcosa sarà troppo troppo ed altro poco poco e dopo quattordicimesiquattordici quasi mi sa che è meglio se mi vado a comprare dieci litri di Novalgina. Dovrei fare un bilancio ma li faccio già di mestiere e qui non c'è mai stato il mio mestiere perchè se molto spesso ciò che scrivo è vero ed ormai se non c'è falso in bilancio che bilancio è? Eh? Vabbè, arriva insomma, ore e minuti e poi "Beh, è stato un piacere ci sentiamo ci vediamo" e fai un sorriso e stringi mani e però un po' di magone, un pochino ti viene, diamine, mica siamo fatti di pietra pomice che galleggia solo, come stronzi, ma grattiamo via i calli. Magone per magone, che con un baol i magoni si trovano bene, cortesie tra colleghi, poi ti metti e pensi alle facce beccate ed a quelle mancate, ma mica a schiaffi è, quelle facce, massì, quelle che "cavolo sto a Milano vuoi che non ci incontriamo?" e com'è che voglio e poi non ci incontriamo? Non vuoi tu o non vogliamo? O non possiamo? O non sappiamo? Boh?! Beh, vabbè c'ho ancora le mie ore di città, di smog asfalto e facce strane, le ore per pensare alle mie ore future di paese, di zolfo e facce sceme. Ma pure facce belle e occhi azzurri chè non tutto si lascia, qualcosa si ritrova ed una birra non è birra uguale in ogni dove? In realtà no, ma meglio non pensarci ora, molto meglio.

Non preoccupatevi, sto bene.

18 novembre 2009

Francobollo, robusto, cascare

il post dalle tre parole di Lady Cocca:



Giorgione


Giorgione era un marcantonio di due metri e passa, robusto come una sequoia centenaria della Sierra Nevada e ruvido uguale. Una volta, tempo fa, mentre attraversava la strada fu investito da un tizio in moto, ebbe due mesi di prognosi, il tizio, per la moto invece non ci fu nulla da fare; quando, dopo un’ora che era stata chiamata, finalmente, si presentò l’ambulanza gli chiesero: “Lei si è fatto qualcosa?”, “Mi sono rotto i coglioni” rispose e se ne andò a casa. Non parlava molto Giorgione, non perché non avesse niente da dire, solo, non gli avevano mai fatto le domande giuste; certo, la sua espressione non proprio sveglia non aiutava molto, aveva lo sguardo sempre un po’ più in la, come se cascasse dalle nuvole ed allora tutti pensavano fosse un po’ ritardato, invece erano loro ad andare troppo di fretta. A Giorgione piacevano poche cose: i bonsai, le caramelle mou e dar da mangiare alle papere del piccolo stagno, quello che sta al centro del parco; però non le caramelle mou, ci aveva provato, una volta, e la papera era ancora lì che galleggiava, con le mosche intorno. Al parco si sedeva sempre sulla stessa panchina, vicino ad un vecchietto; gli piaceva quel vecchietto, era sordo come una campana e quindi lento quanto lui. Gli diceva: “Oggi fa freschetto, eh?” ed il vecchio: “Chi le ha fatto un dispetto? Qualche monello?”, “No, non ‘dispetto’, ‘freschetto’, la TEMPERATURA”, “Le fanno paura?! Grande e grosso com’è si spaventa di qualche ragazzino”, “MA QUALE PAURA?! TEM-PE-RA-TU-RA! IL VENTO!!!”, “Erano cento?! Beh, allora capisco che avesse paura, doveva chiamare la polizia!”. A quel punto, visto che alzare la voce era servito solo a far sapere le condizioni metereologiche a tre ettari di parco tranne che al vecchietto, Giorgione indicava lo stagno ed entrambi iniziavano a lanciare in acqua pezzi di pane duro che le papere si accalcavano per mangiare. Una volta ha anche rischiato di finire in un brutto giro, Giorgione; un suo lontano cugino, un poco di buono che si arrabattava tirando avanti con lavoretti al confine della legalità, il confine esterno però, un giorno gli disse che c’era da lavorare per il suo capo, che avevano bisogno di uomini di fatica, cose semplici niente di troppo intellettuale. A Giorgione non dispiaceva lavorare, si presentò con il cugino davanti al fantomatico capo, la sua faccia non gli piacque ma non andava troppo per il sottile, di solito non giudicava mai le persone dal primo incontro. Il capo lo osservò solo un attimo e gli disse che c’erano cento sacchi per lui, Giorgione si guardò intorno e chiese: “Dov’è il magazzino da svuotare?”, “Quale magazzino?”, il capo ora lo fissava, “Quello con i cento sacchi”; il cugino ricevette un’occhiata di fuoco: “Ma mi hai portato un cretino?” e poi, a Giorgione: “Senti, bestia, per ‘cento sacchi’ intendevo cento euro. Devi seguire un tizio, devi stargli appiccicato come un francobollo e non perderlo di vista un attimo, credi di esserne capace? Eh, minchione, ce la fai?!”. Giorgione aveva incassato tutto senza cambiare espressione, quella rimaneva sempre uguale, “Ma chi è ‘sto tizio?” chiese, il capo era in piedi davanti a lui, sì e no se gli arrivava al petto: “Tu ti devi fare i cazzi tuoi, non hai capito che non devi fare domande?! Sei veramente un deficiente”; il suono dell’ultima “e” non si era ancora spento che il palmo della mano destra di Giorgione aveva già abbracciato la parte sinistra della faccia del capo toccando con la punta delle dita la nuca e con la base del palmo le labbra. Non so quanto forte fosse stato lo schiaffo ma il cugino, che era accanto a Giorgione, fu spettinato dallo spostamento dell’aria ed il capo, ancora adesso, quando vede un palmo di mano aperto si rannicchia sotto il tavolo e piange.

16 novembre 2009

Reticoli?

Eccoci qui, lunedì della mia ultima settimana di lavoro milanese, faccio un'altra pausa dai "racconti ispirati". Mi sento strano, stamattina mentre arrivavo qui avevo in mente le parole di una canzone di Zucchero:

"Giorni neri, giorni tersi
velati di sonno
sempre uguali e diversi
comunque che vanno"

In fondo vado a chiudere un capitolo importante e ne vado ad aprire un altro; la vita, anche la più noiosa, è comunque un romanzo, spero solo che il mio non l'abbia scritto Moccia...

Visto che ci siamo ci metto anche un bel video (quante cose stamattina...), lo dedico ad una persona che non sta attraversando un bel periodo, spero che passi da qui ancora, perchè una persona che correva anche con -4 non può farsi abbattere dall'ennesima salita che ha incontrato sul suo percorso. Lo so, si è stanchi e quel sasso lì, al bordo del sentiero, dopotutto sembra comodo e cinque minuti di riposo fanno bene...però, attenzione, così si perde il passo.



Un abbraccio

14 novembre 2009

Amare, baita, emozionante

il post dalle tre parole di albafucens:


Monologo interiore

Amo il mio lavoro, lo amo soprattutto per le piccole cose, come la possibilità che mi sta dando di vedere quest'alba meravigliosa colorare di rosa i monti di fronte. La giornata è splendida, di una purezza emozionante direi. Non pensavo che oggi ci sarebbe stato sereno, sicuramente non si poteva nemmeno immaginare visto come nevicava ieri sera quando sono arrivato, non si vedono nemmeno le mie impronte, è tutto così immacolato. Mi piace questa purezza, mi fa stare bene; con la luce del sole è quasi abbacinante, per uno non abituato potrebbe addirittura fare male tanta purezza. E il silenzio? Il silenzio è quasi irreale, i già pochi rumori del bosco sono assorbiti dalla spessa coltre di neve fresca che copre quasi tutto; ogni tanto si sente il rumore di qualche ramo che cede al peso e subito dopo si rilassa per il sollievo di essersi alleggerito, una specie di rumore elastico, un sospiro della natura, ma serve semplicemente a sottolineare ancora di più il silenzio. Questa baita poi ha la fortuna di essere particolarmente isolata, dalla strada si vede a malapena, per scorgerla devi sapere che c'è e non tutti lo sanno, non tutti. Si affaccia sul lato più nascosto della valle e permette di vedere la natura che, all'alba, sembra esplodere, la luce aumenta e lei, piano, occupa tutto il campo visivo, l'ho detto, emozionante. Mi piace questa lontananza dalla frenesia, qui si ha il tempo di fare tutto con calma, rilassati, in questo silenzio che nemmeno le urla possono intaccare. Sì, rimarrei volentieri qui ma il mio lavoro è finito e poi, in realtà, non mi piace mai rimanere troppo a lungo in un posto, sono un nomade, in fondo, e mi piace variare. Mi sa che il prossimo lavoro lo prendo al mare, sì, una bella spiaggia di sabbia bianca. Adesso devo proprio andare ma con calma, non voglio spezzare l'incanto di questo posto, tanto passerà un bel po' di tempo prima che scoprano i cadaveri.

12 novembre 2009

Esmeralda Matilde Lapis

Esmeralda Matilde Lapis decise di fare la maestra il giorno che capì che la sua amica, quella che aveva incontrato nel negozio di elettronica, voleva sempre insegnarle tutto; si disse che no, che non poteva credere di non sapere niente, doveva dimostrarle che anche lei sapeva qualcosa e non solo, la sapeva anche trasmettere agli altri. Esmeralda Matilde Lapis era detta “matita”, non so perché, forse derivava da Matilda ma a lei non dispiaceva; in realtà a lei non dispiaceva niente, come usava dirle spesso l’amica “tinsegnotuttoio”, e così sorrideva dolce a tutti. Anche all’amica sorrideva sempre, mentre lei si intestardiva a spiegarle come utilizzare il pc, era buona Esmeralda Matilde Lapis, non ce la faceva a dire all’amica che il suo era un Mac e così le lasciava cercare per ore il tasto “start” mentre biascicava frasi del tipo “ma che ce l’hai attaccata a fare ‘sta cazzo di mela sullo schermo?!”. Esmeralda Matilde Lapis era curiosa di natura, per questo l’amica le piaceva, lei era tutto un mistero, diceva di studiare lingue ma una volta, mentre erano insieme l’amica “tinsegnotuttoio” le chiese se volesse andare a casa sua a prendere un tè e lei, per essere simpatica e farle vedere che qualcosa la sapeva anche lei le risposte “of corse” ma amica la guardò strana e le disse: “non c’è bisogno di correre”. Ci aveva pensato per giorni Esmeralda Matilde Lapis, a questa cosa qui, giorni interi, poi si era convinta che l’amica non studiasse inglese tra le tante lingue. Quello che Esmeralda Matilde Lapis non capiva era l’amico di amica, un tale Neutro che si dicesse sapesse tutto, lui sì, non l’amica; Neutro però non parlava mai, non si esprimeva, nemmeno annuiva, quando gli veniva chiesto un parere l’amica “tinsegnotuttoio” diceva subito: “La pensi come me, vero Neutro?” e subito partiva ad esporre il suo punto di vista sulle cose. Poi, un giorno, Esmeralda Matilde Lapis chiese all’amica: “Ma tu, amica, che lavoro fai?”, l’amica la guardò strana e sorrise senza darle una risposta. Il suo corpo fu ritrovato sul greto asciutto di un fiume, un po’ qui ed un po’ la e non si capì mai chi fosse stato; quando veniva chiesto all’amica “tinsegnotuttoio”, orfana inconsolabile di Esmeralda Matilde Lapis, chi le avesse fatto fare quella fine, lei rispondeva: “Non lo so” e poi guardava strana e sorrideva, mentre Neutro spalancava solo gli occhi. Fu così che Esmeralda Matilde Lapis non riuscì a fare la maestra.


Faccio un'altra pausa dai "racconti ispirati", con un...racconto ispirato :)
Come era già successo qui, ancora una volta un post di Inenarrabile è come se mi avesse sfidato, non ho potuto che risponderle...

09 novembre 2009

Mosaico, trapassare, secolare

il post dalle tre parole di Maraptica:



DiVersi

Quando ti ho vista la prima volta
mi hai trapassato con lo sguardo
e mi hai lasciato trafitto lì
in un tempo che non è finito,
non ho avuto modo di reagire
al tuo sorriso splendido, beffardo
ti ho fatto un cenno con la mano
ma tu avevi già capito.
T'ho baciata di un bacio lieve
sotto i rami d'un ulivo secolare
in un estenuante mezzogiorno
nel frinire di un milione di cicale;
abbiamo speso tutto il tempo
a stare zitti o a parlare,
nella sincronia dei nervosi,
quando non sai cos'è bene e cosa male.
Il sole a picco in mezzo alle foglie
disegnava un mosaico d'ombre e luci,
volevo prendere un raggio con la mano,
tremavo come fosse inverno e tu hai riso.
Mi hai chiesto: “Ma noi dove andremo?”
“Non m'importa, verrò dove mi conduci”.
Ancora adesso quando non guardi
passeggio gli occhi sulle curve del tuo viso.
Ti sfioro il naso mentre dormi
in silenzio, con le dita della mano
così caccio via tutti i pensieri
che accumulo durante il giorno,
Nemmeno adesso so dove andremo
forse potrà essere lontano
la verità è che non mi interessa,
finché “siamo”, il resto è solo contorno.

08 novembre 2009

E' finita l'avventura...

Faccio una pausa dai "racconti ispirati" perchè era da un po' di giorni che dovevo scrivere questo post qui e visto che l'altro giorno scartabellavo tra i miei post ed i ricordi annessi ed ho ritrovato questo che, all'epoca, ebbe molto successo ed ho pensato al ritorno, al mio ritorno a casa. Sì, come dice il titolo, l'avventura e finita ed a fine mese tornerò a casa e rivedrò quelle luci, le luci del mio paese e mi chiedo come mi sentirò nel rivederle non dopo un'uscita per una pizza e nemmeno sapendo di andare via di nuovo, no, rivederle dopo un anno via e per restare. Con molti di voi ho parlato di questa scelta e molti di voi hanno espresso pareri l'uno diverso dall'altro; quando, più di un anno fa sono partito per salire a Milano ero pieno di paura (direi proprio terrore), non sapevo cosa o chi avrei incontrato, non sapevo come sarei stato, non sapevo che impatto avrebbe avuto su di me la vita in solitudine; come più volte ho detto, non credevo di abituarmi così in fretta ma sono stato bene, tanto che, adesso, ci sono cose che mi dispiace lasciare. Torno indietro per tanti motivi, torno perchè la lontananza dall'Oceano è dura da sopportare, perchè ho bisogno del profumo della sua salsedine e della sua umidità perchè ho paura che, alla lunga, mi si secchi l'anima. Torno perchè, forse fin dall'inizio, sapevo che sarebbe stata una cosa a termine, torno perchè ho qualcosa da dover gestire, nonostante sia la cosa da cui sono "scappato". Torno, perchè mi sono accorto che da essere quello sorpassato, la mattina, andando al lavoro, sono io che mi infastidisco della lentezza degli altri. Torno perchè pagare la frutta come dal gioielliere mi fa venire il nervoso. Torno, ma... Già, i "ma" ci sono sempre, no? Se nello scegliere tra restare o tornare ci abbia pensato tanto e ancora adesso non sia sicuro della scelta, ci sarà un motivo no? Significa che è stata un'esperienza importante altrimenti non sarebbe stato difficile decidere di tornare, sarebbe stato un fuggire a casa, invece no, invece tante cose mi mancheranno. Mi mancheranno le possibilità trasversali alla mia attività che stare qui mi offrirebbe, le possibilità di avere a che fare con situazioni che, a casa, ai bordi della periferia dell'impero posso scordarmi. Mi mancherà quella libertà conquistata con la resistenza, sì, mi mancherà questa libertà, non c'è niente di male, è così, sfido chiunque l'abbia provato a darmi torto. Mi mancherà Milano, che ci crediate o no; prima di partire ne ho sentite di ogni, per alcuni, se fossi andato nel peggior slum di Mumbai sarei andato comunque in un posto più bello di questo, beh, gli occhi vanno anche usati; Milano va guardata con lo sguardo a 45° per godersi le prospettive e quando beccate una giornata di cielo terso, verso il tramonto andate da San Babila verso il Duomo, la luce sulle guglie fa un certo effetto. Mi mancherà la possibilità di andare a piedi a vedere un megaconcerto, le mie passeggiate domenicali e le facce una diversa dall'altra, tutte con una storia diversa. Mi mancherà avere, in un solo mese, la possibilità, tra presentazioni varie, di incontrare: Mario Biondi, Maurizio Crozza, Giovanni Allevi, Stefano Benni, Niccolò Ammaniti, Curzio Maltese, gli Avion Travel e i Placebo. Mi mancheranno un sacco di cose e so che, in questo anno passato, sono cambiato e non sono esattamente lo stesso, magari sono pure peggio, non so ma era normale che non rimanessi uguale è cambiato anche il mio modo di scrivere però, almeno, se un giorno avrò bisogno di stirarmi una camicia so che ce la potrò fare senza problemi. Ho detto quello che avevo da raccontare, ora torno a spremere i neuroni sulle parole e sui racconti, un abbraccio a tutti.

03 novembre 2009

Passeggiata, sole, equivoco, ferro da stiro

il post dalle tre parole di enne di niente:


Tutti possono sbagliare

Il corpo era riverso sull'asfalto, seminascosto da una siepe del parcheggio del grosso centro commerciale, gli occhi sbarrati dal terrore ed una grossa ferita nella zona frontale della testa; anche le mani erano ferite, probabilmente alzate in un estremo, inutile, gesto di difesa. Il primo ad accorgersene fu un bambino, a quell'età non sono ancora annoiati dal mondo, osservano sul serio e non si limitano a guardare. Una volta visto il corpo lo aveva indicato alla madre, furono le urla di questa a far accorrere la gente, famiglie con il carrello colmo della spesa della settimana; alcuni di loro avrebbero avuto il sonno disturbato per giorni, altri, quelli più “di mondo”, guardarono la scena con l'espressione di chi ha visto ben altro e poi rimisero tutto il pranzo vicino all'auto. I primi ad arrivare dissero che era drogato, una frase che volevano dire dal 1995, quelli dopo, più moderni, dissero che erano stati gli albanesi. Intanto il corpo era lì, a prima vista un maschio bianco sulla trentina, curato e sportivo; la pozza di sangue si allargava vicino alla testa ed un impietoso sole di luglio ci si rifletteva dentro facendolo brillare, era fresco. Solo dopo i primi attimi di panico, dopo che era stata chiamata un'inutile ambulanza ed avvisata la polizia, ci si accorse della donna in evidente stato confusionale, ad una decina di metri dal corpo. Una signora di bell'aspetto, doveva avere circa cinquant'anni ma si coglievano solo con uno sguardo attento, con un caschetto rossiccio e le labbra tremanti. Nella mano sinistra teneva un kinder bueno che ormai doveva aver ceduto al caldo ed alla presa stretta; nell'altra stringeva ancora quella che doveva essere l'arma del delitto: un ferro da stiro sporco di sangue. Tra la folla serpeggiava la paura ma anche una curiosità morbosa, c'era chi, denotando poca fantasia, ipotizzava un tentativo di stupro. All'arrivo della polizia la donna sembrò destarsi dal suo torpore, si accorse del ferro da stiro e lo gettò via, lontano da sé; una poliziotta le si avvicinò guardinga e lei iniziò a farfugliare qualcosa, diceva che era tutto un equivoco, un errore. La fecero sedere in macchina e cercarono di calmarla con un po' d'acqua, le chiesero cosa fosse successo, ripeté che era stato un equivoco, era uscita per una passeggiata in macchina e si era spinta fino a quell'ipermercato, ne aveva approfittato per fare la spesa, doveva comprare un nuovo ferro da stiro ed era stato proprio al settore dei piccoli elettrodomestici che aveva incontrato quell'uomo, anche lui doveva comprare un ferro da stiro perché era in procinto di iniziare una nuova vita; era simpatico, ci aveva bevuto insieme un succo. Dopo un po' si erano avviati verso le rispettive auto, all'uscita lui aveva incontrato una coppia di amici. La donna si era fermata un attimo per un altro sorso d'acqua, lo sguardo della poliziotta la spronò a continuare. Erano una coppia di amici e al momento dei saluti la ragazza aveva domandato all'uomo se quella donna fosse sua madre; alla donna era ritornato lo sguardo spento ma continuò a parlare, l'avevano scambiata per la madre di un trentenne, sembrava la madre di un trentenne, lei! E lui a questa cosa rideva di gusto, lei voleva solo farlo smettere, in una mano aveva il kinder bueno, nell'altra il ferro da stiro, lo aveva colpito con la mano sbagliata, era stato un errore, era stato un equivoco.

01 novembre 2009

Libro, fumare, saporito

Il post dalle tre parode di LaCapa:


La profezia

“Lui sa! Lui sa!” Lo chiamavano 'il predicatore', andava in giro per le vie della città con addosso una tunica che vedeva l'acqua solo nei giorni di pioggia. Era il nostro matto, predicava sventure ed apocalissi ma nessuno lo prendeva sul serio. Ne subiva di ogni, il predicatore, ingiurie, sputi, sassate; ci avvisava che il male era tra noi e con quello veniva ripagato. Diceva che era tutto scritto nel libro, un tomo rilegato in pelle che si portava sempre dietro e che, diceva, era stato scritto da un monaco pazzo; a me veniva da ridere, lui che dava del pazzo ad un altro era un gran bel controsenso. Una volta mi ci ha beccato sul serio, a ridere, mi ha guardato dritto negli occhi, ha alzato sopra la testa il libro e mi ha additato con la mano sinistra: “Tu sei un miscredente e per questo capirai prima degli altri”. Vaticinava che saremmo stati gli uni contro gli altri e che saremmo stati capaci di perdere tutti, nessun vincitore; ed io pensavo che era già così, ché ci si urlava contro senza nemmeno un motivo. Finiva il suo monito dicendo che eravamo ancora in tempo e poi si allontanava borbottando “Lui sa! Lui, sa!”. Naturalmente non gli credeva nessuno, fino a quando non ci siamo svegliati e parte della città fumava ancora sputando nuvole di polvere e cenere, polvere di macerie e cenere di corpi. Eravamo diventati sempre più particolareggiati nello scegliere chi odiare fino ad arrivare a prendercela con la nostra stessa ombra. Non avevamo voluto ascoltare chi ci aveva avvisato, non avevamo voluto vedere ciò che era sotto i nostri occhi ed adesso ci aggiravamo tra quello che rimaneva della città, guardandoci le spalle anche da noi stessi, cercando qualcosa da mangiare che fosse, non dico saporito, ma almeno commestibile e se non ne trovavamo, cercavamo di dormire in nascondigli improvvisati senza sapere nemmeno di chi avere paura. Cercavamo di dormire per non sentire le urla della fame e nel silenzio della notte, ripensavamo al predicatore, lui che ci aveva sempre raccontato, per anni, come sarebbe andata e non non gli avevamo mai creduto. Noi tutti, noi che lo chiamavamo pazzo, troppo impegnati ad arrivare sempre più in alto, in quel momento lì in cui eravamo tutti perdenti, capimmo il motivo che ci aveva portato tra quelle macerie: noi lo chiamavamo pazzo ma la verità era che portava sfiga.