30 ottobre 2014

A volte si fa teatro



"A volte si fa teatro" pensò Paolo una volta chiusa la telefonata, "si modula la voce per non tradire l'emozione; è un gioco di diaframma" e come se stesse esponendo la sua tesi ad un'aula universitaria, si mise la mano giusto al centro del tronco, appena sotto il petto. "Curioso come sia così vicino al cuore, il diaframma", sorrise percependo quella lieve accelerazione attraverso i polpastrelli. "A volte si fa teatro, sì, per rendere tutto meno complicato, per far durare di più la rappresentazione"; si passava il telefono tra le mani senza pensarci, non che scottasse, no, ma come fosse qualcosa di poco conosciuto, quasi fosse diventato comunicazione e non strumento. "Si recita per se stessi, soprattutto se si ha a che fare con chi ti conosce così bene da andare oltre l'attore, oltre l'interpretazione"; questo pensiero gli calmò i muscoli rimasti con quella percepibile tensione e si accorse che, meccanicamente, si apprestava ad uscire all'aria a godersi quella lieve accelerazione.

21 ottobre 2014

Thermarium

L’acqua è calda, traspira vapore, in controluce una lieve foschia bianca ammorbidisce i contorni delle cose. La vasca è quasi una piscina, si estende su tutta la superficie della grande stanza; ti liberi dell’accappatoio bianco in cui sei avvolta e hai quasi un brivido di freddo, o di pudore, ma dura giusto un istante. Metti un piede nell’acqua ed il calore si irraggia lungo la gamba, lo puoi quasi vedere risalire attraverso le vene, fino a raggiungere ogni cellula del tuo corpo; ti immergi fino al collo, ci sei solo tu e l’unico rumore è quello delle piccole cascate ai due lati della vasca che increspano lievemente la superficie. Chiudi gli occhi ed è come diventare tutt’uno con l’acqua in cui sei immersa, ti sembra di perdere anche il nome, di scioglierti. I pensieri che fino ad un momento fa pesavano sulle tue spalle si fanno liquidi, perdono consistenza e peso quasi che anche loro fossero soggetti al Principio di Archimede; alcuni cerchi di prenderli ma, come dotati di vita propria, sfuggono via nuotando, liquidi nel liquido. Il calore ti arrossa il volto come un imbarazzo improvviso, quasi che fuggendo, i pensieri, ti abbiano lasciata nuda a gli occhi di te stessa. Sorridi un po’ stupita di tale nudità dell’anima; di fronte a te una enorme vetrata, lungo tutta la parete, si affaccia sulla valle; i monti, dal verde delle conifere, sulle cime, digradano verso il rosso del fogliame d’autunno dentro un cielo di pennellate azzurro intenso. I pensieri sfuggiti ormai hanno perso anche il nome; ti immergi con la testa sotto il pelo dell’acqua prendendo un respiro profondo e lì ti chiami per nome, così, per ricordare chi sei.

16 ottobre 2014

Il saldo dei debiti



Adesso tu paghi e paghi tutto e paghi per tutti. Paghi anche quello che non sai. Piove su di te e su di me ma a te sembra diverso, anche la pioggia ti sembra un diritto. Il concetto è che non te lo aspetti perché non arrivi nemmeno a crederci che avresti pagato a me; non te lo aspetti e ti colpisco che ancora mi ridi in faccia. Ti colpisco un’altra volta che nemmeno hai smesso di ridere, non hai smesso ma sei a terra, nel fango, nemesi e contrappasso. Ti rialzi o almeno cerchi, mentre dici qualcosa di cui non mi frega un cazzo, mentre ti fermo le parole con la suola delle scarpe; il fango ti è arrivato nei capelli, il sangue negli occhi ma te l’ho detto che paghi tutto e se pensi di saltarmi addosso lo hai pensato più lentamente del calcio che ti arriva nello stomaco. Piove, su di te e su di me, piove così tanto che le pozzanghere sono laghi; piove così forte che a malapena ti vedo ma è il malapena sufficiente per colpirti le braccia mentre sei carponi. Non ti dico mica nulla, no, tanto chi sono, alla fine, non è così importante e poi con la testa nella pozzanghera non sentiresti comunque. Ti tengo la testa sotto con il piede, sbatti le mani e le gambe, cerchi di tirarti su ma non ce la fai; l’acqua fa bolle dense, poi smette. E anche tu.

13 ottobre 2014

La cifra stilistica

Mi piacciono un sacco le serie tv, si sa, soprattutto quelle gialle e credo di averne viste abbastanza da poter dire che, bravura o meno degli sceneggiatori, ci sono clichè che, spesso, si ripetono. Uno di questi è il classico ritrovamento della lettera del soggetto scomparso con il parente prossimo che dice: "No, commissario, questa lettera non può averla scritta mio marito/moglie/figlia/figlio/madre/padre/sorella/fratello...ecc ecc", con la sicurezza estrema di chi non può sbagliare, di chi è sicuro che quelle parole non siano state scritte dal parente scomparso. Ogni volta che mi capita sotto gli occhi di spettatore questo clichè mi rendo conto che è la verità, almeno per quanto mi riguarda; che a furia di leggere le cose scritte da una persona se ne metabolizza la sua cifra stilistica. Ma che cos'è la cifra stilistica? Praticamente è l'impronta digitale di come scriviamo, è fatta dalle nostre parole preferite, dal nostro personale uso della punteggiatura, dal nostro uso dei verbi, dallo scorrere fluido o meno delle frasi, è il DNA del nostro lessico. Ora, io non sarò Grissom (anche perché non sarei mai stato capace di essere entomologo, sì e no se sarei capace di essere enologo...vabbè...altra storia); non sono Grissom, dicevo, ma a furia di leggere, di leggervi, bene o male conosco le cifre stilistiche di chi leggo; sono pochi i maestri della letteratura capaci di cambiare radicalmente la propria cifra stilistica, di essere altro da sè, tolti questi rari esempi di arte, hanno ragione i parenti degli scomparsi, se non si riconosce la cifra stilistica qualcosa è successo e le possibilità non sono molte. La più probabile è che a scrivere non sia, in realtà, colui che ha firmato; poi c'è il caso in cui, sì, a scrivere sia chi firma ma che si sia (o sia stato) costretto a scrivere quella cosa, in quel modo e poi c'è anche il caso in cui non ci sia nessuna costrizione palese ma che inconsciamente ci si voglia nascondere qualcosa e ci si inventi altro da sè. Quindi, quando vedo qualcosa di scritto che si discosta dalla cifra stilistica di chi lo firma, cifra che, magari, conosco anche meglio della mia, magari il pezzo lo apprezzo pure ma comunque mi chiedo il perché di tale variazione.

Il pezzo è stato offerto dal professor Cal Lightman di Lie to me (che poi è una delle pochissime serie tv statunitensi che non ho mai visto)

09 ottobre 2014

Eunuchicità

Leggenda vuole che quando, all’età di dodici anni, il Bomma venne a sapere che in Medio Oriente gli eunuchi erano addetti al controllo delle donne negli harem decise su due piedi che quello sarebbe stato il suo lavoro, da grande. Si chiamava Bomma perché, quando dovevano decidere il nome, il padre, patito della vela, voleva chiamarlo Timone, per celebrare questa sua grande passione mentre la madre, invece, voleva chiamarlo Pampero. Alla fine la donna convenne che quella del marito fosse una passione più celebrabile e gli chiese soltanto di scegliere un nome meno fraintendibile ed egli scelse “Boma”, solo che l’impiegato dell’anagrafe era di origine sarda e finì per registrarlo come Bomma. Avuta l’epifania sul suo futuro, il Bomma, pieno di eccitazione corse a dirlo a suo padre. Alcuni agiografi raccontano che andò direttamente dal padre, altri che, prima, fece tappa in bagno. Alla notizia “Da grande voglio essere un eunuco” il padre rimase molto colpito, come rivela il referto del cardiologo del pronto soccorso. Mentre lo portavano via in barella il padre del Bomma cercava di spiegargli cosa sognava per lui, con frasi spezzate diceva: “Tu devi navigare, tu devi gridare ordini, TU DEVI DIRE ‘CAZZATE’!!”, “Va bene papà” disse il Bomma. Il comportamento successivo del ragazzo fa chiaramente capire come, in quel caso, egli fraintese ampiamente il padre. Ormai però il sogno di diventare eunuco era radicato dentro di lui, già si immaginava prendersi cura delle trenta vergini dell’emiro. confessò il suo sogno alla madre che, domma pragmatica ma molto diplomatica, cercò di far capire al figlio cosa implicasse tale scelta; gli disse: “Per farlo bisogna andare a Casablanca. Devi darci un taglio!”. Vuoi per la discrezione di quella santa donna che, non volendo scioccare il figlio, usò circonvoluzioni, vuoi per la caratteristica del Bomma di fraintendere, fatto sta che il bambino si immaginò che a Casablanca ci fosse una scuola di formazione per eunuchi e che, dato il costo elevato, doveva smettere di chiedere. Fu così che decise che, appena possibile, si sarebbe trovato un lavoro per guadagnare i soldi per la scuola di formazione. Raggiunti i sedici anni, col suo sogno ben piantato nel cervello, il Bomma trovò lavoro nel settore dei pezzi di ricambio: procurava 127 per Antonio Gagliardi, detto Tonino lo scanna pecore, meccanico di contrabbando. Lavorò alacremente e quando portò a Tonino una 128 nuova fiammante fu promosso a responsabile spedizioni all’estero. Anche in quel caso corse dal padre a raccontare la lieta novella ma lo trovò che bestemmiava in aramaico perché gli avevano fregato la 128 appena presa dal concessionario, ed allora evitò di infastidirlo. Quando compì diciotto anni il padre lo chiamò nel suo studio e gli disse: “Ormai sei un uomo, pensavo di regalarti una 127 usata”, “Grazie papà, me ne occupo io.”; un po’ perplesso dalla risposta continuò il discorso che si era preparato: “Mi sembra sia anche il momento di parlare di api e fiori”, “Papà, lo sai che sono negato per il giardinaggio, ho fatto morire i fiori in salotto ed erano di plastica.”, “No, figliolo, intendo parlarti di sesso.”, “Aaaah, ma mi ha già spiegato la mamma.”, “La mamma?”, “Sì, mi ha raccontato una roba di spinotti delle cuffie e di sterei in cui si mettono”, “E che altro ti ha detto?”, “Che secondo lei farò ancora un sacco di karaoke”. Sceso il silenzio glaciale nella stanza fu il Bomma a romperlo: “E poi papà, io sono negato con le donne.” e lì il padre sorrise e disse: “Conquistare le donne è facile, basta farle ridere” ed anche lì pare che il Bomma non capì bene bene perché la sera stessa andò dalle nigeriane sul lungo Po con un libro di Gino Bramieri. Quello però fu solo un intoppo nella carriera di casanova del Bomma anche perché le cronache lo descrivono come “l’uomo capace di ingravidare una donna con lo sguardo”; certo, ci sono delle malelingue che aggiungono “perché non può farlo con nient’altro” ma sono soltanto malelingue, anche perché tanto era il successo del Bomma con le donne che l’università fece uno studio intervistando quelle che avevano avuto a che fare con lui; studio da cui appare chiaro come il Bomma fosse un amante instancabile ma anche una persona dal cuore puro. Pubblichiamo, di seguito, un piccolo stralcio di tali interviste:

D. Il Bomma è una persona di cuore?
R. Ce l’ha come un bambino di cinque anni.
D. Com’è, a letto, il Bomma?
R. Ce l’ha duro come la pietra.

Certo, gli ultimi studi hanno ipotizzato che, a causa di disguidi in fase di catalogazione, le risposte qui sopra vadano invertite. La carriera di casanova del Bomma finì il giorno che incontrò quella che sarebbe poi diventata sua moglie; era, come suo solito, in discoteca e quando lei lo vide ballare non potè fare a meno di correre da lui: era infermiera e pensava che stesse avendo un attacco epilettico. Chiarito il disguido fu amore a prima vista, lei era miope. Il Bomma però non aveva mai rinunciato al suo sogno e un giorno, mentre erano a letto abbracciati, lui le disse: “Amore, da quando ho dodici anni il mio unico sogno è fare l’eunuco.”, lei lo guardò spalancando gli occhi e disse: “Ma guarda che per diventare eunuco devono toglierti l’uccello”, lui mise le mani sula bocca, terrorizzato “No! Ci tengo troppo a Twitter”, sottolineando ancora una volta la sua perspicacia.

Ribadisco che, a volte, ci sono personaggi su Twitter che mi scatenano la fantasia.

06 ottobre 2014

Bird gerhl


"Non so nemmeno più da dove arriva il dolore", si disse, guardandosi allo specchio, la ragazza dalle ossa cave mentre si toccava le cicatrici sulle ali. Il volto raccontava una storia sottovoce fatta di labbra piegate all'ingiù, di occhi spenti, di rughe d'espressione. "Non so nemmeno più da dove arriva il dolore, ne sono immersa dentro, forse è l'unico posto in cui so stare; quello che mi è stato assegnato". Seduta sul letto sfatto, con i piedi nudi sul pavimento freddo, la ragazza con le ossa cave si ripeteva, come ogni giorno, la storia del destino. "É l'unica ragione, deve essere così" concluse la ragazza dalle ossa cave, si asciugò una lacrima senza farsi vedere dallo specchio e mosse un passo verso la nuova giornata.