28 febbraio 2014

Ma che blog c'hai?

In sette anni e mezzo di (dis)onorata carriera la domanda che mi hanno fatto più spesso, dopo "ma è il tuo l'occhio?", è "ma che blog c'hai?" intendendo, credo, il genere di blog. Confesso che, sempre nei sette anni e mezzo di (dis)onorata carriera me lo sono chiesto anche io, anche un po' con invidia nei confronti di quelli che diventavano blogstar che avevano un blog tematico. Essì, perchè, alla fin fine, come è catalogabile il mio blog? Ok, fuori chi ha urlato "CAZZATE", sù, nome e cognome! In che categoria, dicevo, può essere inserito il mio blog? Non è assolutamento un food-blog, certo, parlo spesso di cibo ma intendendo quello che, costantemente, ingurgito, non posto mica ricette, mai fatto; non è un blog professionale, anche perchè professionale preferisco esserlo sul lavoro e non nel blog. Che cos'è allora? Ogni tanto posto foto ma non è un foto-blog; alle volte parlo di attualità, ma non è un blog di informazione; scrivo recensioni di libri ma non è un blog letterario; men che meno (certo che, in diecirighedieci, ho già usato "fin fine" e "men che meno", mi alliscio le sopracciglia con indice e mignolo della mano destra), men che meno, dicevo, lo rendono tale i racconti che scrivo, non sono nemmeno tutti dello stesso genere, ho scritto praticamente di tutto; direttamente, ogni tanto, parlo di me ma non si può definire un diario, quelli che mi conoscono mi hanno conosciuto attraverso altre modalità, coadiuvati dai miei post; metto video musicali ma non è un canale tematico di youtube e nemmeno un blog musicale. Niente, io la risposta non sono riuscito a darmela, su che tipo di blog c'ho, diciamo che è un poutpourrì (e questa va, di diritto, insieme a "fin fine" e "men che meno"). Alla fine non so nemmeno che tipo di blogger sono; non sono uno di quelli che si (auto)definiscono scrittori e parlano sempre e costantemente di loro, dei loro scritti, dei loro sogni, dei loro consigli; non sono di quelli che sparano merda su qualsiasi cosa si muova perché sanno che è il modo migliore per ottenere consensi e nemmeno sono uno di quei blogger che, con una superiorità da ossigeno rarefatto, fa tanto il sarcazzo, nel senso di "sar'cazzo chi t'ha detto che fai ride". Non sono nemmeno un fashion blogger, di solito mi vesto lanciandomi nell'armadio e vedendo cosa mi rimane addosso. Non sono un poeta anche se ho scritto, rare volte, poesie. Insomma, a me 'sta cosa di non sapere che blog c'ho, che blogger sono mi lascia interdetto; si vede che devo continuare ad esserlo, magari alla fine lo scoprirò per davvero.

26 febbraio 2014

Un punto poco fermo in preda alla sua rotazione



Auto, aereo, navetta, autobus, due metro, due metro, autobus, aereo, navetta, metro, treno. I muscoli che chiedono un time-out, anche quello ballerino, quello che non gli bastano le cose normali e fa uno scatto in più, ma niente, riempi il tempo di tempo pieno, di affanni, lavoro e non lavoro. Sbagli? Fai bene? Non importa, importa quella sensazione di accelerazione, dentro, che ti piglia, all'improvviso e, analizzando, sai cos'è, sai perchè, e stai seduto in mezzo alla gente e non te ne frega nulla e cerchi come fossi un tossico e poi ti pianti le unghie nei palmi delle mani, ripari paratie che, sai già, crolleranno dopo poco e riparerai poco dopo, e poi ricrolleranno ancora. Cammini e ti fermi. Ti fermi e guardi. Poi ti capita anche che il tempo passi pure in modo diverso, pieno di parole e di passi, ma con il loro ritmo, senza passi in più, senza accelerazioni e lo senti, quello, come un tempo "giusto", se un senso può avere.

21 febbraio 2014

Fibrillazione sovra atriale

Fino a ieri non sapevo manco che esistesse. Praticamente il cuore fa, tipo, un battito in più; che sarebbe una cosa anche poetica, se non fosse, mi sa, una grandissima rottura di coglioni.

19 febbraio 2014

16 febbraio 2014

Oggi

La chiesa è piena in ogni ordine di posti, anche quelli in piedi, sono appoggiato al muro, praticamente all'ingresso, e guardo i fiori di gesso sul soffitto della cupola. Non mi piacciono i funerali, ma ci sono persone per cui è giusto esserci, soprattutto se, obiettivamente, sono andate via troppo presto. Sento le parole del sacerdote di colore, parla italiano meglio della maggior parte di quelli che assistono alle esequie, ognuno con la propria motivazione, dalla più seria alla più frivola. Invidio i credenti, il pensiero che, per loro, la morte sia l'inizio di qualcosa; per me non è così, per me la vita è ciò che accade tra la nascita e la morte ed è quella che va vissuta, per quello, non per ciò che, ipoteticamente, avverrà dopo. Non è una questione di religione o cristianità, a me non frega un cazzo nemmeno del karma, della vita successiva basata sulla vita precedente; la vita che va vissuta è questa, e basta, e non per guadagnare un ipotetico paradiso ma per sentire ogni fottuto attimo di questa esperienza terrena che sia lungo quanto la vita stessa o che sia più breve. Ascolto le parole del parroco e mi soffermo su quello che dice, racconta un aneddoto di vita della persona che siamo venuti a salutare; lavorava allo sportello, alle poste, e quando ci andava un suo conoscente, per salutarlo, tendeva la mano dalla fessura del vetro per avere un contatto fisico, lo ha fatto spesso anche con me, ti sorrideva, ti chiedeva come stavi e passava quattro dita sotto il vetro, per salutarti. Parla di mani tese, il parroco e, pur utilizzando una dialettica lontana dalla mia, dice una cosa che trovo giusta, dice che una mano tesa è il più bel gesto che si possa fare, che significa "ecco, sono qui, se hai bisogno, questa è la mia mano". Non sono religioso, credo in Dio ma a mio modo, credo in Dio ma non nell'umanità e, soprattutto, credo che il nostro tempo sia questo, non quello di una vita precedente, non quello di una vita successiva, e per questo dico che la mia mano è questa, è qui, prendila se ti serve, se hai bisogno.



14 febbraio 2014

Il dono della sintesi

Qualche giorno fa ho terminato di leggere "Mancarsi" di Diego De Silva, è il primo libro letto in questo 2014, ho cominciato tardi, lo so; l'ho comprato ai primi di gennaio prendendolo d'impulso dallo scaffale, era all'altezza dei miei occhi, occhi che guardavano altro. De Silva è uno scrittore che ho scoperto relativamente da poco ed il bello di questa cosa è che ho ancora tanto da leggere, molto in cui perdermi o, meglio, ritrovarmi. Credo che uno dei pregi di De Silva, oltre alla stupenda costruzione delle storie, sia proprio l'uso dell'italiano, superiore alla media a mio parere, con cui ce le racconta, con cui ci spiega la vita, il suo modo di osservarla. Ho constatato, già dal primo libro che ho letto, questa capacità di metterci davanti ad un'evidenza di cui spesso siamo già consapevoli ma per la cui espressione non abbiamo gli strumenti. Il bello di quello che scrive, di come lo scrive, è che vorresti tenere a mente tutto, tutte quelle magnifiche parole usate per spiegare qualcosa; cosa abbastanza normale quando leggi una frase che rappresenta il tuo pensiero ma la bravura di De Silva, la sua superiorità (sempre a mio parere) sta nel farti dire "che meravigliosa frase" anche se con la stessa non si è assolutamente d'accordo. Anche in "Mancarsi", titolo bellissimo, ci sono tante frasi che vorresti trattenere, tanti periodi che vorresti portare con te, come quando, da piccoli, si cerca di prendere quante più caramelle possibile ma, ahinoi, qualcuna ce ne cade sempre di mano; io, tra le tante parole, ho scelto un piccolo periodo che esprime perfettamente quello che, tempo fa, ho cercato di spiegare con un post di 646 parole, senza riuscirci troppo bene, mentre lui, usandone solo 43, fa capire perfettamente il senso di questa sacrosanta verità:


"Siamo adulti, sbagliamo continuamente e non impariamo da nulla. La comprensione di un errore, la sua localizzazione nel tempo e perfino l'individuazione delle cause che l'hanno provocato (quando è possibile individuarle) non ci impedisce di ripeterlo e non ci fa avanzare nella vita."

13 febbraio 2014

Considerando

A volte, soprattutto quando si attraversa un momento non propriamente felice, se non buio, capita, guardando i bambini,  gli animali; il loro sguardo semplice, puro, ma anche privo di limiti, verso l'infinito ed oltre, di pensare "Eh, loro sì che hanno capito tutto", riferendoci alla vita, non sicuramente alla fisica quantistica o alla filosofia dei presocratici che, comunque, un collegamento con la vita ce lo avrebbero pure. Quando pensiamo questo, magari con la mestizia di chi non può farci più nulla o con l'invidia del "beati loro" vien da chiedersi se, forse, in realtà, non sono loro ad aver capito tutto della vita ma noi che, della stessa, non ci abbiamo mai capito un benemerito cazzo.

11 febbraio 2014

Amico, terrificante, cadere

Solita premessa: il 25 ottobre 2009 ho chiesto ai miei lettori di darmi, nei commenti, tre parole; per l'esattezza un aggettivo, un sostantivo ed un verbo, ed io ci avrei tirato su un racconto. Ne arrivarono tante, di triplette, circa trentatre! All'inizio ero partito anche bene, spedito, poi, vuoi la vita, vuoi gli scazzi, ho rallentato la scrittura dei racconti; l'ultimo, infatti, risale addirittura al 27 settembre 2013, insomma, sono più di quattro anni che ho cominciato questa impresa e non mi fermerò fino a che non avrò esaurito le triplette. Qui sotto c'è il nuovo post, gli altri li potete leggere qui.

Il post dalle tre parole di Pupottina

Un pezzo di me


Uno dei miei rimpianti riguarda l’università, non che non l’abbia fatta, tutt’altro, solo che avrei voluto viverla di più. Ho seguito pochi corsi, non per presunzione, semplicemente perché pensavo che, trattandosi di una facoltà direi semi-umanistica, la maggior parte delle materie l’avrei capita di più confrontandomi semplicemente con i testi d’esame che ascoltando lezioni poco pratiche in mezzo ad altre migliaia di persone. Ho capito dopo che non è tanto per l’esplicazione delle materie che l’università va vissuta ma per la vita che ci passa in mezzo, e trattandosi di vita, a parte gli illuminati, si capisce solo alla fine del percorso, non all’inizio. Questo, comunque, non mi ha privato completamente di alcuni bellissimi ricordi del poco tempo trascorso nelle aule della facoltà di Economia di Bari, nei suoi corridoi, o bivaccando, nelle ore più fresche di quasi estate o in quelle più calde di autunno e primavera, sulle panchine sparse qua e la in quella parvenza di giardino che circondava la facoltà. Non penso che dimenticherò le partite a carte sui banchi, nell’attesa delle ore di esercitazione oppure l’ansia feroce che mi assaliva prima di un esame; l’ansia, quella fedele compagna che mi è accanto sempre, prima di ogni evento importante. Di quel periodo mi è rimasto anche qualche buon amico, persone che il destino mi ha posto accanto e che ancora adesso, per quanto magari divisi e lontani, lì accanto mantiene. Uno dei ricordi più vivi che ho riguarda uno dei pochi corsi che ho seguito, Ragioneria I; l’esame faceva parte, e lo fa ancora, credo, di quelli fondamentali del primo anno e proprio perché relativo al primo anno e fondamentale, il numero di soggetti che lo seguivano, o che avrebbero dovuto, era talmente alto da aver portato a dividere l’insegnamento in tre gruppi separati, con tre docenti separati. La separazione era fatta in base all’iniziale del cognome degli studenti e trovandosi, la mia, verso la periferia esterna dell’alfabeto, il mio gruppo di appartenenza era il terzo, a detta di tutti il più difficile. Il docente che teneva il corso, il professor P., portava con se una reputazione terrificante; a noi matricole venivano raccontate storie di ripetute bocciature all’esame, di pubbliche umiliazioni in aula, di terribili reprimende udibili fino all’ultimo piano della facoltà. Lo spirito, dunque, con cui affrontai la prima lezione era molto vicino a quello di un condannato e confesso che anche il primo approccio con il docente, al suo ingresso in aula, non fece che confermare tale stato d’animo; era molto alto e magro, vestiva un abito grigio di un’eleganza un po’ âgée ma quello che colpiva era il suo sguardo, duro, arcigno. L’altra cosa che si notava subito era l’estrema difficoltà che aveva nel camminare, anche aiutandosi con un bastone, era come fosse un pezzo unico; ci volle poco a sapere che, negli anni, la sfortuna s’era accanita contro di lui quasi paralizzandolo e non consentendogli elasticità nei movimenti. Il corso fu duro ma lui si rivelò meno terribile di quello che ci aspettassimo, almeno durante le sue spiegazioni; non che quello che ci era stato raccontato fosse del tutto falso o solo una leggenda, nei primi anni era stato davvero il docente più temuto con cui andare alla lavagna ma, probabilmente per le vicissitudini della vita, come a contrastare l’indurimento delle ossa, aveva ammorbidito il comportamento, senza però perdere la serietà nello svolgere il suo lavoro. Superai l’esame, che prevedeva un difficile scritto, con un ottimo voto ma, più di tutto, quello che è rimasto indelebile dentro di me è stato quello che ci disse all’ultima lezione del corso; dopo averci spiegato come si svolgeva l’esame, che non avrebbe accettato nessun mercanteggiare sul voto che avrebbe espresso, sul fatto che eravamo fortunati perchè, a differenza di quanto avveniva durante i suoi studi, le bocciature non venivano verbalizzate; alla fine di tutto questo ci disse: “E comunque, ragazzi miei, ricordatevi che nella vita può capitare di cadere, l’importante è sapersi rialzare con onore”. Se già allora, poco più che ventenne, quelle parole mi rimasero dentro, adesso, dopo più di quindici anni, ho capito il loro senso profondo che non è quello di sfida, di forza, di rabbia, nell’affrontare la caduta ma di comprenderla per quello che è, una delle tappe della vita.

02 febbraio 2014

Un salto nel passato

C'è stato un tempo, nella blogosfera, in cui tra blogger si faceva a gara a chi si passava più "premi" e/o "meme" in cui venivano fatte le domande più assurde (tanto per farvi capire, date un'occhiata qui); poi questa insana abitudine è passata, come tutte le mode ma, come tutte le mode, ogni tanto si ripropone (come i peperoni ma non così fastidiosa), infatti l'amica Zion qualche giorno fa mi ha fregiato di questo premio:
Le cui regole sarebbero queste:

Chi lo riceve deve ringraziare chi gliel'ha consegnato nominando il suo blog. E' un modo per far simpatica pubblicità ad un blog che segui con interesse. Dopodiché si risponde alle 10 domande che sono state poste; si nominano altri 10 blogger interessanti che abbiano meno di 200 followers; si preparano altre 10 domande e si avvisa i blogger della loro nomina.

Nel mio caso i follower sono più di 200 ma non cerchiamo il pelo nell'uovo eh!!

Ora comincio con le domande che pone Zion:

1. quale data imposteresti nella macchina del tempo?
Il 16 febbraio 2012, vi chiederete perché, lo so, ma non ve lo dico.

2. che arma useresti per abbattere l'ostacolo che ti impedisce di realizzare il tuo Grande Sogno?
Il sorriso e la consapevolezza delle mie ragioni.

3. teletrasporto: dove andresti in questo istante?
A Milano. Lo so che sembra una scelta stupida ma chi mi conosce sapeva già che avrei risposto così.

4. quale libro vorresti poter vivere?
Vabbè, anche questa domanda...dai...la conoscete già la risposta: "Baol", di Stefano Benni.

5. di quale film vorresti essere protagonista?
Mmmm...bella domanda...direi: "The Blues Brothers".

6. il piatto che hai sempre sognato di riuscire a fare ma non sei mai riuscito/a o non hai mai osato provare?
I panzerotti.

7. cosa faresti con 100 euro trovati per strada?
Li spenderei in libri.

8. La casa dei tuoi sogni come e dove sarebbe?
Una villetta, niente di pomposo, però che abbia un bel giardino.

9. hai a disposizione per 2 ore un grande chef, cosa gli chiederesti di prepararti?
Il piatto che gli ha fatto amare la cucina, qualunque sia.

10. devi scegliere fra un magnifico quadro e una magnifica fotografia, quale sceglieresti? 
Sceglierei la magnifica fotografia.

Direi che ho svolto il compitino, non lo giro a nessuno di voi, e non perché non mi interesserebbe sapere le vostre risposte ma perché, se volete, io sono qui per ascoltarle.