22 ottobre 2012

Un Martini please...non Carlo Maria però

Spalanco con un calcio la porta del mio cervello e mando a fanculo il SuperIo, stava già cominciando a menarmela sulle aspettative, mi stravacco con l'Es e comincio a grufolare beato immaginandomi il chissàcosa. Da qualche parte ringhia la Rabbia alla catena del quieto vivere, c'ha ragione ad incazzarsi ché l'ennesimo "non puoi fare a meno di...", sinceramente, sfracassa un po' i coglioni. Me la vedo, l'Invidia, che va a menare l'incazzatura con i suoi deliri metafisici sull'essere ed il non essere, poi si lamenta che mando a fanculo lei e pure Amleto che, poverino, alla fine non m'ha fatto niente. L'Es mi propone due o tre immagini che sto lì lì per collassare quando il Buonsenso mi dice che non va. Come se non lo so che ci stanno un sacco di cose che vanno a cazzo, nel mondo ma quelle due o tre immagini non erano mica male per non pensarci, mi sa che erano i ricordi di qualcuna importante. Ecco che s'è staccata la rabbia e a mandato a gambe all'aria Invidia, SuperIo e pure Buonsenso ed adesso sbava in giro il suo livore su questi e quelli che, francamente, sono meno dell'unghia di un decimo di 'sto cazzo e non ci stanno nemmeno in uno stadio da quanto son gonfiati, guardati da folle gongolanti per non so cosa, uno sberleffo trito e ritrito su cose di cui, fortunatamente, non hanno mai saputo un cazzo ma questo non gli ha mai impedito non solo di professare ma pure di interrogare gli altri. Mentre Rabbia sta sfanculando almeno tre dimensioni di esistenza, SuperIo s'alza incazzato pure lui e mi viene a prendere per la giacca proprio mentre Es mi sta giusto raccontando di alcune rotondità. Alla fin fine, da che mondo e mondo, m'alzo di malavoglia dal mio stravaccamento e vado a prendere per un orecchio Rabbia dando, lungo la strada, un calcio in culo ad Invidia; lo riporto alla catena del quieto vivere, gli do da mangiare un po' del godimento delle teste di cazzo sparite, ché lo so che si calma sempre e, rimettendo a posto la porta me ne esco un po' fuori, all'aria.

Mi sa che sto lavorando troppo (o troppo poco)

17 ottobre 2012

Non vorrei mai diventare...

...uno di quelli che, mentre guida, discute con il passeggero e muove le mani come se cacciasse le mosche, con un occhio alla strada ed un occhio all'interlocutore come se fosse un camaleonte con la vista stereoscopica. Uno di quelli che procede lento ed ogni tanto indica in direzione di qualcosa con il dito indice rigido come uno stecco oppure, peggio, fa ondeggiare in su e in giù la mano destra tenendo fisso il polso e mettendo attaccati il polpastrello del pollice con quello dell'indice, che prima usava per indicare, e le altre tre dita aperte. Uno di quelli che cerca l'approvazione della persona seduta accanto che annuisce ma dentro è preoccupata del buon esito del percorso come se si aspettasse, da un momento all'altro, lo spuntare di un qualche animale ignaro, dal ciglio della strada e, per questo, tiene, rigido, il braccio destro sullo sportello. Uno di quelli che, approfittando del semaforo rosso, aumenta l'energia della perorazione della causa sconosciuta, spesso anche a se stesso, unendo le mani in una giaculatoria poco religiosa e guarda, senza guardare, davanti a se, fino a quando uno squillo di trombe alle sue spalle non lo avvisa che il semaforo gli sta chiedendo, per favore, di ripartire. Uno di quelli che tira fuori dal cilindro gli argomenti più disparati fino al parcheggio o, alternativamente, allo sfinimento del passeggero che tenta di lanciarsi fuori dall'auto in corsa. No. Mai.

08 ottobre 2012

Verità, lasco, mentire

Il post dalle tre parole di 24 Fotogrammi

Lo sguardo del Maestro

Il monastero si intravede a malapena, nella bruma, appare etereo a strapiombo sulla vallata, quasi sospeso. Un’ombra ingobbita si avvicina lentamente, strascinando il passo, al portone antico come le montagne, è un uomo intabarrato in una gabbana nera, le nuvole di fiato che il freddo condensa immediatamente sottolineano un affanno, un debito d’ossigeno che la postura non fa che confermare. Appoggia una mano ossuta ad un vecchio battente d’ottone e, con uno sforzo che lo piega sulle ginocchia, lo lascia cadere due volte sul legno, rompendo il silenzio della valle. Il portone, leggero, senza un cigolio, si apre su un lungo corridoio illuminato solo da fiaccole, su entrambi i lati. L’uomo lo percorre, attento a non cadere al peso della stanchezza, con passo malfermo, lasco nelle giunture che, sicuramente, dolgono nel profondo. Al termine del corridoio si apre una grande stanza al centro della quale c’è un altare rialzato, alla fine di una scala e, in cima un anziano in tunica. Medita nella posizione del loto, sembra circonfuso di luce e levita ad una ventina di centimetri come fosse una cosa naturale. L’uomo si inginocchia, quasi crollando, ai piedi della scala e scopre il suo volto, scavato e dolorante, non ha fiato e non ha voce e stringe con forza quasi rabbiosa le dita sulle ginocchia, a cercare forze ormai del tutto fuggite. Con fatica comincia a parlare: “Antico Maestro, con il cuore pieno di gioia e timore mi appresto a voi, grato di essere stato accolto al vostro cospetto. Ho attraversato deserti e montagne per essere qui, meravigliandomi di aver trovato, nel mio corpo decadente, la forza per affrontare tutti i pericoli che il lungo percorso mi ha riservato. Sono partito mesi fa, dal centro di un mondo che si crede civile, perché stanco delle ingiurie del tempo ma, soprattutto, di quelle dell’uomo; stanco della finta pietà e del godimento di un dolore, il mio, che mai mi abbandona. Stanco della falsità del popolo che mi blandisce ed avvelena, stanco della ricerca di una verità, di una epifania, che non arriva. Le chiedo, dunque, Antico Maestro, con tutta l’umiltà dovuta al vostro cospetto, di poter avere l’onore di essere accolto fra i vostri discepoli, così da poter imparare la sospensione del dolore e la conquista della pace”. Il silenzio si può quasi toccare fino a quando, come un respiro, giunge la risposta dell’anziano in meditazione: “No, prendi ristoro per le tue membra stanche e domattina lascia questo luogo”. L’uomo sgrana i suoi occhi neri, un’ombra dura li attraversa, “Perché Antico Maestro?”, “Perché non sei puro”; un moto di rabbia contrae la maschera dell’uomo, “Mai avrei pensato che anche voi vi fermaste all’apparenza di un corpo finito”, “Stolto, guardami”, l’anziano Maestro schiude le palpebre e mostra uno sguardo vuoto, due pupille bianche come la neve delle cime, “Io non posso vedere il tuo corpo finito, però posso guardare il tuo spirito ferito ancor più delle membra. Smetti di raccontarti una bugia, smetti di mentirti sul mondo; hai lasciato che gli sguardi che avevi intorno ti entrassero dentro, diventassero il tuo, fino a marcire; non è il corpo a decadere, è la tua anima ad essere putrefatta”. Finito di parlare, il vecchio Maestro richiude gli occhi ed il silenzio ritorna tutto intorno, su di lui e sull’uomo, in lacrime, ai piedi della scala.

Sono passati quasi tre anni da allora ma ho promesso che li avrei scritti tutti, i racconti, e fino alla fine manterrò questa promessa. Prima di questo ce ne sono altri 25

02 ottobre 2012

L'ultimo boccale



 L'ultimo boccale di birra è il mio. Sempre.
Quando l'ultimo cliente se n'è andato, con le sue gambe o con quelle di un altro.
Quando ho tirato su l'ultima sedia e spazzato l'ultima nocciolina.
Quando ho asciugato l'ultima goccia di un qualsiasi liquido caduto e Diotipregofachesiaacqua perché il nettare non si spreca.
Quando ho lavato l'ultimo bicchiere.
Quando ho contato l'ultimo coccio frantumato.
Quando ho chiuso la cassa e i conti.
Quando ho spento tutti i fornelli e controllato il forno.
Quando ho messo il lucchetto al frigo e alla dispensa.
Quando ho letto tutti i messaggi graffiati sui tavoli, i luiamalei, i leiamalui, i luiamalui e i leiamalei perché qui ci possono venire tutti, le squadre di calcio, le stramaledizioni e le benedizioni, i noisiamoqui.
Quando ho sorriso sull'ultimo tovagliolo di carta con il numero di telefono scritto con il rossetto e i cosatifarei.
Quando ho spento l'ultima luce e lasciato solo il bancone illuminato.
Quando ho pulito l'ultimo sgabello.
Metto su l'ulltimo pezzo allo stereo, prendo il boccale grosso e lo riempio di birra, fino all'orlo, schiuma permettendo, mi siedo con le spalle all'entrata. E bevo.
Sorseggio la birra fredda, mi asciugo le labbra e lascio il boccale lì perché è il primo boccale del mattino che devo lavare.
E' l'ultimo boccale di birra che viene svuotato ed è il mio. Sempre.