25 giugno 2014

La misura del cazzo che me ne frega

Giusto poco fa, in un simposio su Twitter, si discuteva animatamente con altri esimi studiosi sulla misura che può assumere, in particolari situazioni, il cazzo che me ne frega. La discussione contrapponeva gli “statici”, che ipotizzano una misura costante del cazzo che me ne frega, uguale per tutti e molto ampia, e i “dinamici” che, invece, sono dell’idea che il cazzo che me ne frega sia variabile. Essendo io uno dei massimi esperti del cazzo che me ne frega vorrei, dunque, chiarire una volta per tutte la querelle: il cazzo che me ne frega, che alcuni, molti, chiamano anche “il cazzo che me ne fotte” e altri ancora, meno, “il cazzo che me ne sbatte”, per lo stesso riferimento all’organo in questione, è variabile. La sua elasticità o anelasticità varia in base a molte, scusate la ripetizione, variabili; anche la stessa identificazione della misura non ha avuto una classificazione metrica precisa, c’è chi parla di metri, chi di chili, chi di yarde, chi di pounds, metri quadri, metri cubi, eoni, parsec e via così; questo, però, non incide sul fatto che il cazzo che me ne frega subisca forti variazioni, anche basate su progressioni geometriche, sulla base di molteplici fattori. Uno dei fattori è lo stato del soggetto che chiameremo “passivo”, ovvero colui che quantifica il cazzo che me ne frega; se il soggetto passivo si trova in una condizione di empatia, dovuta al buon andamento della giornata, oppure, più probabile, all’assunzione di sostanze psicotrope, il cazzo che me ne frega è di dimensioni molto ridotte, a volte anche nulle, anche di fronte a notizie di importanza vitale quali “Hai visto il nuovo taglio di capelli di Rihanna?!”. Sono chiaramente, questi, stati di alterazione che capitano raramente, per fortuna, perché, di solito, la misura del cazzo che me ne frega del nuovo taglio di capelli di Rihanna è pari, spesso e volentieri, ad un campo di calcio compresa pista di atletica. Un altro dei fattori che incide sulla misura del cazzo che me ne frega è il soggetto che chiameremo “attivo”, ovvero quello che interagisce con il soggetto passivo e su cui quest’ultimo parametrizza il cazzo che me ne frega. Tale variabile è soggetta, chiaramente, al concetto quanto mai poco identificabile e valutabile dell’affezione; c’è un rapporto di semi proporzionalità indiretta tra affezione e cazzo che me ne frega: più è alta l’affezione nei confronti del soggetto attivo più è bassa la misura del cazzo che me ne frega, e viceversa. Per fare un esempio che può essere chiaro a tutti, se la persona che amate vi comunica che il suo punto di vista sulla questione mediorientale è di favore ad un sottogruppo di matrice cattomusulmana composto da tre membri che non si conoscono, voi chiedete addirittura i nomi dei tre; mentre se il collega dell’ufficio vicino che spara cazzate alla velocità di un Uzi vi chiede quale sia l’indirizzo mail del cliente su cui state lavorando così da mandargli il report del lavoro al posto vostro, firmato però da voi, voi rispondere: “sono le quattro meno un quarto”. Questo avviene perché nel primo caso la misura del cazzo che me ne frega è praticamente nulla, in inversa proporzionalità con l'affetto che provate (o con la misura del reggiseno del soggetto attivo); mentre nel secondo caso la misura del cazzo che me ne frega è pari alla distanza tra la Terra e la Luna passando prima da Plutone. I più attenti di voi avranno notato che, però, ho parlato di SEMI proporzionalità, per il semplice motivo che esiste quello che noi scienziati chiamiamo BBP, Breaking Ball Point, Punto di Rottura dei Coglioni che sfalsa la proporzionalità relativa alle alte affettività: se una persona verso cui provate alta affettività insiste su posizioni chiaramente sbagliate e controproducenti che continua incessantemente a professare come verità assolute autoconvincendosi, si raggiunge il BBP e la misura del cazzo che me ne frega raggiunge estensioni che vanno a comprendere anche la quarta dimensione. L’ultimo dei fattori che possono modificare sensibilmente la misura del cazzo che me ne frega, forse il più importante, è l’oggetto su cui si basa il cazzo che me ne frega, l’argomento specifico; va da sé che, su argomenti importanti, quali il mio stato di salute, lo stato di salute dei miei cari, cosa si mangia a pranzo e, soprattutto, l’ammontare delle birre in frigo, il cazzo che me ne frega rasenta lo zero e, a volte, è anche un numero negativo; mentre, nel caso di comunicazioni riguardanti personaggi mai cagati nemmeno di striscio, posizioni politiche basate sull'estremismo, esultanze sportive di dubbio gusto ed esposizioni personali non richieste, la misura del cazzo che me ne frega arriva a livelli di guardia. Come avete visto, dunque, la misura del cazzo che me ne frega non è affatto statica ma dinamica e variabile sulla base di “quando”, “chi” e “cosa” e raggiunge, spesso e volentieri, dimensioni ragguardevoli.

22 giugno 2014

Try walking in my shoes



Now I'm not looking for absolution
Forgiveness for the things I do
But before you come to any conclusions
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes

20 giugno 2014

Antenne


La sera si fa spazio dentro il giorno, piano, quasi chiedendo permesso e muta la luce, senza uno stacco, senza un'indecisione.

15 giugno 2014

I awake



La prima cosa che gli venne in mente fu il desiderio di non essere lì, di cacciarsi in gola quella fottuta birra, alzarsi e, con il passo più svelto che potesse, raggiungere la prima fermata della metro disponibile, vedere quale treno partisse prima e saltarci su, direzione “vaffanculo”. Bevve solo un sorso, sperando buttasse giù quel nodo enorme e, magari, si portasse appresso un po' d'aria perché gli sembrava non ne entrasse più da un pezzo. Ascoltava capendo tutto e sentendo niente o sentendo tutto e capendo niente; dentro gli si sommavano “ma” come se fosse un'addizione infinita, emetteva dei rantoli che, a quanto pareva, in realtà erano parole perché ottenevano risposte di senso compiuto mentre dentro gli si affollavano pensieri di senso incompiuto. Anche il secondo pensiero fu quello di buttare giù la birra e alzarsi di scatto, come se la sedia fosse arroventata, ma temeva che gli sarebbero tremate le gambe; era sicuro gli sarebbero tremate le gambe e si era immaginato alzarsi con l'intenzione di sembrare risoluto ed invece ricadere con un tremito delle ginocchia e fermarsi con le mani sul tavolo, magari rovesciando il suo bicchiere vuoto e quello di lei, ancora pieno, ed invece di sembrare risoluto, sarebbe sembrato impacciato, imbecille ed infantile; tutte cose che, era consapevole, lo caratterizzavano più di “risoluto”. L'immagine dei bicchieri rovesciati lo bloccò, lo tenne seduto in quell'attimo di silenzio che si era formato; quel silenzio imbarazzato ma non del tipo che cerchi di baciare qualcuno e sei sicuro che quel bacio ci sarà e l'altra persona si ritrae, no, più che altro un silenzio imbarazzato di verità, di quelli fatti principalmente di non detti, di percepiti. Guardò il piatto con gli scampoli di cibo ma fu come se il suo stomaco avesse scattato l'ultima foto e si fosse chiuso del tutto il diaframma; gli venne in mente l'immagine di quei palloncini usati per formare figure, quei lunghi salsicciotti che vengono girati fino a stringersi, ecco, il suo stomaco era così in quel momento: un lungo salsicciotto con una strozzatura al centro. Ebbe quasi la nausea ed il “quasi” fu solo un'illusione, non riuscì nemmeno a capire bene cosa ci fosse nel piatto, cosa sul tavolo, cosa intorno; tutto sfocatamente indistinto, come qualcosa che sappiamo che c'è ma non ce ne frega praticamente un cazzo. Bevve un altro sorso come se fosse una medicina amara, sperando davvero fosse una medicina miracolosa che lo curasse dal male. Lei gli parlava e lui, incredibilmente, rispondeva ma le parole che tirava fuori non erano esattamente le stesse che gli venivano alla mente o, meglio, non erano le sole, come si affrettassero all'uscita a suon di spintoni e “Passo io!”, “No, io!” ed avessero la meglio, come in molte occasioni della vita, gli “Ho capito”, i “Certo”, giusto un paio di “Sì, ma” e nulla di più. Ancora una volta ebbe l'impulso di trangugiare la birra rimasta, quella che continuava incessantemente a cedere la sua freschezza all'aria intorno o a prendere il calore da essa; ancora una volta si trattenne perché quella tra la voglia di rimanere e la voglia di andare non era un'uguaglianza ma era ancora una disuguaglianza con il segno di “maggiore di” in mezzo; consapevole che con lei sarebbe sempre stato così. Le parole si fermarono un attimo, come se si fosse accorta del suo trambusto; giustificò la pausa con un sorso della sua bevanda verde. Lui si chiese il perché dell'accondiscendenza delle parole che aveva detto, del perché, nell'affannarsi all'uscita, l'avessero sempre vinta loro, con lei, e si rispose che la colpa di cui si era macchiato quasi tre anni prima aveva tolto per sempre autorevolezza al suo punto di vista, questo sarebbe sempre stato ricoperto di una luce sbagliata, di una puzza di errore. Gli ripassò in testa tutto il rosario di appunti, considerazioni, puntualizzazioni, che portava dentro e che aumentava con il tempo ma spense l'affollamento dentro la sua gola con l'ultimo sorso di birra calda; conclusero uno dei mille discorsi senza conclusioni e si salutarono con un sorriso. Strinse i denti e resistette fino alla scala della metro, sparito alla sua vista si accasciò contro il muro, come se la tensione di ogni resistenza autoimposta fosse terminata di colpo; si appoggiò alla parete respirando come in debito d'ossigeno, come dopo una corsa; avvisò chi lo attendeva che avrebbe tardato e partì per un pellegrinaggio dei loro luoghi.