13 dicembre 2017

Giorni 9 e 10

Il freddo umido di dicembre entra nelle ossa senza bussare, senza avvisare; stare in un capannone di una sperduta zona industriale di periferia, tutta la notte, a scaricare casse da camion che devono andare via veloci, non aiuta. F. rientra a casa che sono le otto del mattino, i muscoli doloranti per la fatica che fanno l'ultimo sforzo di salire le scale; l'ascensore non se lo può permettere, il primo piano nemmeno. Arrivato davanti alla porta di casa non sente il classico vocio della tv accesa sul solito programma che dice che le cose vanno male, come se in quella casa non lo sapessero già, vivendolo sulla loro pelle. No, questa mattina F. sente chiacchierare, distingue chiaramente la voce della sua fidanzata che dice "Ma no, non si preoccupi, vedrà che adesso arriva, intanto le faccio un caffè". Non aspettava nessuno e la vita gli aveva insegnato che quando arriva qualcuno che non aspettavi solitamente sono problemi. Per un attimo, solo un attimo, è tentato di riprendere le scale e andare via, nonostante la stanchezza, nonostante i dolori, ma c'è lei. Apre la porta ed entra guardingo, salutando come al solito, ma con la soglia dell'attenzione ad un livello di guardia; il saluto gli si blocca in gola, seduto al tavolo, con davanti un caffè bollente, c'è il tizio dell'altra sera, la "preda", che sorride affabile. F. ha quasi un mancamento, lei, non capendo, gli chiede cosa abbia; "È venuto questo signore, dice che deve restituirti una cosa che gli hai prestato l'altra sera. Ma che hai?". Non dando nemmeno il tempo alla paura di esplodere, il tizio sorride: "Ciao F. scusa se sono venuto così presto ma la tua fidanzata è stata così gentile da aprirmi ed offrirmi un caffè. Sono venuto a riportarti questo" e mette sul tavolo una scatola. F. sa benissimo cosa c'è dentro. "Ora però devo proprio andare" e con si alza, indossa il cappotto e si avvicina alla porta; quando è davanti ad F. lo guarda negli occhi e poi, sorridendo, "Se non hai da fare, ho bisogno di una mano per un lavoro; se ti va sai dove e quando trovarmi" e si chiude la porta alle spalle.

La casa è piccola, un monolocale con cucina a vista ed un divano che, probabilmente, si apre per trasformare quella stanza in camera da letto; un armadio all'ingresso ed una porta, probabilmente il bagno. Una casa piccola e di poche pretese, tenuta con un certo decoro; sicuramente opera della ragazza gentile, con gli occhi stanchi, che lo ha fatto entrare. M. pensa che la dignità la fanno le persone e non le cose e qui ce n'è molta, nonostante tutto. La scatola con la pistola è sulle gambe, naturalmente non le ha detto cosa contiene e lei nemmeno lo ha chiesto, probabilmente abituata a non chiedere, come forma di autodifesa. Si sentono dei passi stanchi sul pianerottolo, sicuramente F.; lo sente indugiare, avrà capito che c'è una variante alla routine e si starà preoccupando perché a persone come lui le varianti non portano mai buone notizie. Alla fine sente le chiavi nella toppa e la porta si apre proprio mentre lei sta servendo il caffè; lo riconosce subito, si vede da come si dilatano le pupille e sbianca il volto. M. se lo aspettava ma vuole evitare che la situazione degeneri in alcun modo,non è lì per quello. Mentre lei gli parla, accortasi subito del volto terreo, M. anticipa la paura in arrivo e lo saluta, levandolo un attimo dall'impasse in cui è caduto; gli porge la scatola mettendola sul tavolo, consapevole che F. ha già capito cosa contiene. Non c'è più bisogno di stare lì, l'ultima cosa che deve fare prima di andare via è chiedergli, a modo suo, di fidarsi. Dopo deve solo aspettare.

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