30 aprile 2014

Pagine non scritte

Dopo una consistente produzione letteraria fatta di romanzi e racconti, Francisco Quinoa Descartes smise improvvisamente di scrivere; comunicò la cosa al suo agente con un semplice biglietto spedito tramite posta ordinaria, con su scritto “Smetto”. A niente servirono i tentativi dell'agente di contattarlo perché Francisco Quinoa Descartes, insieme allo scrivere, smise anche di fare vita pubblica; non rispose più al telefono, alle lettere, alla posta elettronica. Quando il suo agente fece il tentativo di incontrarlo di persona si rifiutò di aprirgli e quando questi gli chiese, davanti alla porta chiusa, “Perché?”, una voce attutita dal legno rispose solo “Per le storie”, per poi tacere. Dopo quel tentativo estremo da parte del suo agente, Francisco Quinoa Descartes sparì del tutto; si affrettò a vendere la sua casa, svuotò i suoi conti correnti e chiuse tutte le utenze. Per un periodo se ne occuparono anche i giornali, si parlò di malattia, di pazzia, di morte; i suoi tanti lettori si chiedevano che fine avesse fatto, speravano tornasse, sognavano un nuovo libro. Come per tutte le cose della vita, con il tempo, l'interesse per la sparizione di Francisco Quinoa Descartes andò scemando; nuovi libri furono pubblicati, nuovi autori divennero famosi ma, come per tutte le cose della vita, non per tutti il tempo fa questo effetto; c'è sempre qualcuno, alla fine, che ricorda, che pensa, che spera. Vicente Ilario Dos Passos era uno di quelli per cui il tempo non cancellava nulla; era una di quelle persone per cui le foto non sono solo immagini ma vite; è pesante un'esistenza così, portandosi addosso tutte le vite importanti incrociate ma Vicente Ilario Dos Passos non ne conosceva altre e non ne avrebbe mai vissute di diverse, nemmeno potendo scegliere. Quando guardava la sua libreria con i libri di Francisco Quinoa Descartes non poteva non chiedersi dove fosse, quali altre parole avrebbe potuto scrivere; ricominciò a leggere i suoi libri partendo da quello che aveva amato di più: “Persistenza”; fu nella storia di quel villaggio tra i monti che lo ritrovò, nella storia di Donna Maite ed il suo curare con le parole ed il silenzio. Vicente Ilario Dos Passos partì senza pensarci, come si dovrebbe fare per tutte le cose importanti della vita; partì per il villaggio natale di Francisco Quinoa Descartes, quel villaggio le cui strade, sapeva, avevano ispirato quelle in cui si muoveva Donna Maite. Appena sceso nella piccola stazione del paese ebbe la sensazione di conoscere ogni angolo, ogni via, ogni pietra; girò per ore, non come un turista o qualcuno che cerca ma come uno tornato a casa dopo anni lontano. Visitò i luoghi di cui aveva letto, incontrò, nei volti, nei gesti, i personaggi del libro; incontrò anche il matto perché, come diceva il poeta, “per ogni matto c'è un villaggio”, quello che nel libro veniva chiamato Zorro, e fu proprio a lui che chiese, perché, spesso, per avere la risposta che cerchi devi chiedere ai folli, a patto di fare la domanda giusta. Infatti Vicente Ilario Dos Passos a lui chiese “Dove posso trovare Donna Maite?” e non ottenne un “Chi?!” come risposta, non ottenne un blaterare incomprensibile ma un semplice “Quella che cura con le parole ed i silenzi? Lo trovi al bar di Jesus”. Vicente Ilario Dos Passos non ebbe necessità di chiedere altro, si avviò sicuro lungo la strada alla sua destra e dopo circa 300 metri vide l'insegna del bar dove sapeva che l'avrebbe trovata e senza sorprendersi, e questo lo sorprese, guardò a colpo sicuro all'ultimo tavolino in fondo e lo trovò; Francisco Quinoa Descartes era seduto con davanti una birra, uguale a come lo ricordava dalle tante foto che aveva visto. Si sedette allo stesso tavolo come se fosse la cosa più naturale del mondo e l'uomo che si trovò davanti lo guardò come si guarda uno che aspetti ma che arriva in orario e disse “Ciao”. Vicente Ilario Dos Passos prima di tutto ordinò una birra e poi, senza nemmeno presentarsi, come sentisse la cosa inutile, chiese semplicemente “Perché sono io il primo?”. Francisco Quinoa Descartes parlò: “Sai perché si scrive? I motivi sono tanti, si scrive per se stessi, per gli altri, per tutti, per uno o una sola; per la gloria, per il denaro, per la noia; per capire, per capirsi, per centinaia di motivi diversi; le parole, però, decidono loro cosa fare. Probabilmente le mie era a te che volevano raccontare dove fossi.”, “Ma perché ha smesso di scrivere?”, Vicente Ilario Dos Passos aveva fatto la domanda per cui, alla fine, era partito; la domanda per cui era seduto a quel tavolo, davanti ad un bar di un villaggio sperduto tra i monti. Francisco Quinoa Descartes rispose come aveva fatto al suo agente da dietro una porta: “Per le storie”, ma poi continuò, “Scrivevo per raccontare, era una specie di bisogno fisico, una necessità, poi, un giorno, mi resi conto che, per quanto scrivessi, non avrei mai potuto raccontare tutte le storie possibili; per ogni pagina che scrivevo ce ne erano infinite non scritte. Cominciai a non finire le storie perché ogni finale escludeva tutti gli altri; fu allora che decisi di smettere, perché la pagina bianca racchiudeva tutte le storie possibili.”, “Anche la vita si sa solo che finisce ma non si sa mai come, forse per questo vale meno la pena di viverla? Non è il finale, sono i momenti che portano a lui a fare il racconto, a fare la vita. Le storie sono fatte di parole, non sono solo un finale ma anche, e soprattutto, quello che c'è in mezzo; non chiudiamo un libro perché non ci piace come finirà. La vita è uguale, non è quello che la conclude che la fa ma quello che avviene prima, è quello che deve farci stare bene.”. Detto questo Vicente Ilario Dos Passos bevve la sua birra, si alzò, strinse la mano di Francisco Quinoa Descartes e mise sul tavolo ciò che aveva portato con sé da casa, un taccuino vuoto ed una penna nera.

24 aprile 2014

Clichè

E niente, è che giusto poco fa, prima di entrare in ufficio, pensavo che, a volte, soffriamo di omologazione; ci convinciamo che sia nostro dovere seguire un copione senza sapere nemmeno bene quale sceneggiatore l'ha scritto. Sì, insomma, magari lo ha scritto un premio Oscar e allora, via, potrebbe essere un ottimo copione, che tu sia protagonista, coprotagonista, antagonista, comprimario o comparsa; ma metti che lo ha scritto uno "scalzacani"? Con tutto il rispetto per i cani, si intende. Metti che questo sceneggiatore sia del tutto privo di fantasia, che non conosca nemmeno le regole base del racconto? Eppure spesso ci convinciamo che una cosa debba andare in un determinato modo perchè è quello che ci si aspetta da noi, come se davvero noi avessimo un ruolo, come se dovessimo rispettare un clichè. Ci convinciamo che la cosa migliore è seguire delle "regole sociali", come il non poggiare i gomiti sul tavolo quando si mangia, come il non rispondere quando non si dovrebbe. Ci facciamo indirizzare la vita da una specie di Monsignor Della Casa che è dentro di noi perchè ci siamo convinti non tanto che sia la cosa giusta per noi quanto quella più confacente ad un Regolamento non scritto. Vorremmo essre sbracati ma rimaniamo compunti, vorremmo essere solitari ma dobbiamo socializzare, e via così alla ricerca di cosa poi? Com'è che la chiamano? Felicità? Tranquillità? Equilibrio? Ma rispetto a cosa? Continuiamo a dire che una cosa ci fa felice perchè abbiamo visto che fa felice qualcun altro e allora pensiamo che debba essere così anche per noi e via a dire sì o dire no sulla base di un preconcetto; e via a sopportare palate di merda perchè, quantomeno, riusciamo ad essere vicini ad un obiettivo. Non è nemmeno più una questione di essere ed apparire, quanto una questione di ricalco; mi viene in mente una cosa che, da piccolo, facevo spesso: prendevo la carta velina e l'appoggiavo su un disegno che mi piaceva molto e poi, con la matita, ne ricalcavo i bordi, poi alzavo la velina e la guardavo controluce, alla fine il disegno poteva essermi venuto meravigliosamente ma non raggiungeva mai l'originale, anche se gli somigliava tantissimo. Ecco, per quanto in molte cose della vita faccia comodo, a me non piace essere carta velina, preferisco essere disegnato fuori dai bordi.

20 aprile 2014

Giusto un ovetto

Tanti auguri di Buona Pasqua amici miei, solo questo, che oggi il resto delle parole, secondo me, lasciano il tempo che trovano...

18 aprile 2014

Oggi



L'altro giorno guardavo la mia foto della patente, la faccia di uno che non ha capito che ci sta a fare lì, o al mondo, la faccia di uno che sembra si sia appena svegliato o che si stia per addormentare, la faccia di uno che "Bah, che avranno tutti da dire?!". Avevo 19 anni, oggi ne ho compiuti 38. Avevo la metà degli anni e, probabilmente, il doppio dei sogni; alcuni sono stati avverati, altri se ne sono andati con il tempo, sulle strade del ripensamento, sulle strade del "ormai non si può più". Altri sono rimasti, certo, meno di allora ma sono rimasti, non ho ancora capito se a far male o a spronare. Altri ne sono arrivati, più sensati, forse, meno sensati, sicuramente; sono arrivati altri sogni, fatti di luoghi, di parole, fatti di persone, di visi, di occhi. Provo anche a ripensare a quello che sentivo allora e, confesso, in alcune cose non è tanto diverso da quello che sento ora, con il doppio degli anni, un po' di chili in più, sicuramente più barba. Vorrei dire anche "con maggiore esperienza" ma l'esperienza è una cosa strana, appena sei convinto di averne, arriva qualcosa a fotterti e allora, no, non so se adesso ho più esperienza; certamente ho visto più cose, vissuto più cose, e questo non può che farmi pensare un po' di più. Vorrei dire che questi 19 anni in più mi hanno tolto il vizio di giudicare ma probabilmente non è così, l'unica cosa sicura è che non lo faccio più a cuor leggero, senza aver "sentito le parti", anche se le parti sono semplicemente le due facce della mia stessa medaglia. Guardo quella foto e mi chiedo se fossi più sognatore allora o lo sono più adesso, non in quantità, l'ho detto, i sogni sono sempre di più a 19 anni perchè è come se avessi una vita eterna per contenerli ma magari sono piccoli e tanti o, meglio, ci sono quelli infiniti, quelli enormi, quelli grandi, quelli normali e quelli piccoli; adesso magari i sogni piccoli nemmeno li fai, forse te li vai direttamente a prendere, però ce ne sono di mastodontici, monolitici, direi storici. Ci sono quelli apparsi si è no, boh, quattro anni fa (per dire eh), sogni che magari hai pure vissuto, sogni che magari adesso arriverà qualcuno a dirmi di chiuderli in un cassetto e buttare la chiave ma quei 19 anni in più ti hanno regalato, questo sì, 19 anni in più di conoscenza di te stesso e che quindi, no, non ti prendi più in giro, sai come gestisci le cose, sai che non c'è spazio, per certe cose, nei cassetti. Che non ci sono interruttori da premere, cassetti da chiudere; e poi ripensi anche alle prime parole del libro da cui hai preso il nome, "Baol", e ti confermi che, no, chiudere i sogni nel cassetto non è una cosa baol. Guardo la foto della patente, guardo quel ragazzino di 19 anni, penso a questo uomo (?) di 38 fatti giusti giusti oggi e mi faccio la domanda che, tra amici, ci facciamo da anni: "Ma quando metterai la testa a posto?" e mi rispondo quello che rispondo sempre. Mai.

ps
Anche Google mi ha fatto gli auguri, oggi...

17 aprile 2014

Intermezzo



Visto che con il post di ieri qualcuno lo avrò fatto un po' arrabbiare, oggi vi regalo questa canzone.

16 aprile 2014

Fra tutti

Ci sono quelli che parcheggiano dove non dovrebbero, quelli che parlano urlando al cellulare; ci sono quelli che non aspettano di trovare un cestino dei rifiuti ma gettano qualsiasi cosa per strada. Ci sono quelli che lasciano cagare il cane al centro esatto del marciapiede e non puliscono, quelli che "hanno capito tutto loro"; ci sono quelli che non vedono l'ora di dirti come devi vivere. Ci sono quelli che fanno due pesi e due misure, quelli che non danno la precedenza nemmeno alle ambulanze, quelli che la precedenza se la prendono. Ci sono quelli che dicono "attimino", quelli che dicono "Io non sono razzista/omofobo/sessista ma...", ci sono quelli che non gli va mai bene niente. Ci sono quelli che ci tengono tanto ad inquadrarti in qualcosa, quelli che sanno come sei senza nemmeno conoscerti, quelli che va bene solo quello che piace a loro. Ci sono quelli che guardano dall'altra parte, quelli che guardano soltanto; ci sono quelli che il rispetto pensano di doverlo avere a prescidere, come gli fosse stato calato dall'alto. Ci sono quelli che ti guardano dall'alto in basso, quelli che piangono miseria senza averla, quelli che si fingono umili per pugnalarti. Ci sono quelli che fanno gli amici senza esserlo per nulla, quelli che odiano, quelli che amano solo se stessi. Ci sono quelli che seguono la massa, quelli che si devono distinguere per forza; ci sono quelli esterofili, quelli italiofili. Ci sono quelli che tifano solo contro, quelli che non hanno il senso della misura; ci sono quelli che devono dirti cosa mangiare, come e quando; quelli che non gli si puo dir nulla. Ci sono un sacco di tipi ma posso dire con ragionevole certezza che, a mio parere, i più coglioni sono quelli che dicono "italiota".

06 aprile 2014

Leggervi

Io ne avrei di parole da dire, di storie da raccontare, ne sono convinto, solo che, spesso, quelle parole rimangono lì, basite da se stesse, dentro la mia testa. Le vedo che ci sono, allineate come su scaffali da supermercato, un discount della parola, pronte ad essere prese e messe nel carrello lessicale. Solo che io me le guardo, a volte, quelle parole negli scaffali e saprei anche come servirvele, che cosa cucinarci, ma mi fermo li, con le mani strette al manico del carrello che guardo quello che non ho preso come se tutte le cose da dire, le storie da raccontare, avessero remora a mostrarsi. Poi succede che, mentre sono lì che cerco la somma delle lettere, intanto che mi viene voglia di raccontare, vi leggo ed accade una magia: mi perdo in mezzo alle vostre, di parole, come quando si corre in un campo di spighe di grano, alte fino a coprire la vista. Leggervi è anche, un po', parlare con voi e leggo di torte e profumi del passato, di libri, di film da vedere o da scartare, di weekend passati o da venire, di sogni e certezze. Ogni volta, in mezzo a tutte quelle frasi messe in fila mi perdo sempre un po', poi la strada la ritrovo ma, ogni tanto, ci si deve anche perdere. Leggervi è un po' perdersi, uscire dal supermercato senza aver comprato nulla, rimandare ancora un po' il racconto di una storia, che sia la mia o quella che, sul momento, mi invento ma, alla fine, ne vale la pena. Grazie.

02 aprile 2014

Intermezzo



Io che ho fin troppe parole
a volte resto in silenzio...

Oh, a me questa canzone piace un sacco, più la ascolto e più mi piace.